Le saracinesche si dovevano abbassare lunedì 9, ma la serrata arriverà molto prima, con tutta probabilità già domani. Ieri è andato in scena il balletto purtroppo già visto decine di altre volte in questi mesi: riunione d’urgenza del Comitato tecnico-scientifico, allarme generale, convocazione dei capidelegazione dei partiti al governo, tam-tam che prelude al nuovo Dpcm che sarà varato domani. A dire il vero, stavolta una novità c’è: Giuseppe Conte farà comunicazioni al Parlamento. Il passaggio alle Camere (domani alle 12 alla Camera e alle 17 al Senato) è un segnale di attenzione per l’istituzione più ignorata in questa emergenza. Ieri il premier ha anche telefonato ai leader dell’opposizione, cosa che Conte di solito faceva un quarto d’ora prima di presentarsi davanti alle telecamere.
Il momento è arrivato, il Paese non è pronto ma la crescita dei contagi e le misure analoghe prese da mezza Europa non lasciano alternative e bisogna adeguarsi. Quando bisogna prendere qualche provvedimento impopolare, c’è sempre di mezzo l’Europa: è Bruxelles che “ce lo chiede”. Ora la Commissione di Ursula von der Leyen tace, ma da Madrid a Berlino la narrazione degli eventi va a senso unico: i governi Ue adottano misure più blande delle nostre ma qui vengono dipinte come draconiane. Bisogna chiudere, tutti a casa, non basta aver impedito aperitivi e cene, bisogna rintanarsi nuovamente tra le mura domestiche e sperare di uscirne presto.
Il Dpcm di pochi giorni fa fissava la scadenza al 24 novembre. Ora si parla di un salto di 15 giorni fino all’Immacolata. L’obiettivo resta quello di garantire almeno un po’ di shopping prenatalizio. Andrà davvero così? Difficile fare previsioni oggi, visto quanto è stata repentina l’accelerazione del contagio negli ultimi giorni. Resta il fatto che sembra di essere tornati all’inizio di marzo: scoppiano i focolai, il governo cade dalle nuvole, prima non interviene, quindi decide zone rosse limitate, successivamente blinda mezzo Nord Italia e nemmeno tre giorni dopo mette agli arresti domiciliari l’intero Paese per 15 giorni, poi allungati di altri 15, e avanti così finché non si è arrivati a metà maggio.
È questa serie di corsi e ricorsi che pone interrogativi drammatici. Negli ultimi mesi la maggioranza giallorossa non è stata in grado di prendere misure strutturali per affrontare l’emergenza. Lo strumento prescelto è quello in voga fin dal medioevo con la peste e il colera: tutti chiusi in casa e i più gravi al lazzaretto, oggi ribattezzato Covid hospital. Chi ci dice che nelle prossime settimane il governo sarà in grado di avviare una seconda ripresa, visto come ha gestito la prima? L’8 dicembre sarà l’atteso giorno del “liberi tutti”, oppure tornerà Conte in tv a implorare agli italiani pazienza e rassegnazione? E dopo aver comprato i regali di Natale (ammesso che sia possibile) la vita tornerà come prima?
La chiusura che sarà decretata domani avrà lo stesso effetto della precedente: darà l’illusione di porre un argine all’espandersi dell’infezione, mentre riuscirà soltanto a mitigarlo un po’. Questioni come prevenzione, riorganizzazione di scuole e sanità territoriale, maggiore efficienza nei controlli (quanti sono in Italia i bar aperti dopo le 18 che non vengono sanzionati?), rimangono ancora una volta nell’ombra. E soprattutto resta inascoltato il grido degli operatori economici e commerciali che non sanno come rialzare la testa, mentre la rabbia popolare repressa in primavera ora sembra sul punto di esplodere. Intanto il governo va avanti: lacero e sempre più diviso, guadagna altri mesi preziosi di sopravvivenza. Sempre che le sommosse nelle piazze non degenerino.