La produzione manifatturiera a livello mondiale è tornata a livello pre-Covid, grazie alla persistenza della domanda dei prodotti finali e a un’ottima ripartenza degli ordini da parte dell’industria intermedia. Crollano i servizi legati al turismo e al tempo libero. Si sviluppano, invece, i servizi alle imprese digitali e di intelligenza artificiale con una razionalizzazione del lavoro d’ufficio, che è una razionalizzazione tecnologica centralizzata e tale da superare tutti gli ostacoli del passato. Ostacoli che consistevano nell’impossibilità di controllare il lavoro impiegatizio privato: controllo che ora lo smart working rende, invece, possibile per la prima volta nella storia mondiale della razionalizzazione del lavoro d’ufficio, con un aumento delle prestazioni orarie che sarà la vera novità antropologica del lavoro nell’impresa di domani nella riattualizzazione tecnologica di forme lavorative precapitalistiche (il putting system).



La differente traiettoria tra i settori della manifattura e dei servizi ha conseguenze importanti sulle capacità di ripresa dei singoli Paesi. Mentre la Germania ha potuto beneficiare della sua ampia base industriale, quelle nazioni europee che si fondano – con più alti indici proporzionali rispetto al Pil – sul commercio al dettaglio e sul turismo, sulla ristorazione, l’hotellerie e le attività correlate, soffrono della pandemia in forma rilevante e forse irreversibile per la loro fragilità finanziaria. L’industria manifatturiera mondiale, invece, ha reso evidente una capacità di ripresa impensabile.



In questo contesto l’Italia si distacca dalle altre nazioni dell’Europa del Sud. Rimane il secondo Paese manifatturiero europeo in termini di occupati e il terzo per Pil. La Germania supera l’Italia solo per il surplus della sua bilancia commerciale. Di questo non vi è contezza alcuna nelle classi politiche peristaltiche e mucillaginose che detengono il dominio nazionale. E la borghesia italiana soffre anch’essa di tale inconsapevolezza. Non è riuscita a impedire la movida e la riapertura delle discoteche in cui i figli prima e le famiglie poi della medesima borghesia si sono infettate in massa questa estate, potendosi poi curare con ogni agio, mentre per il popolo degli abissi – che condivide i miti ma non le cure costose che preservano dai miti e dalle pandemie – è giunta la morte o la malattia dei poveri curata come si curano i poveri negli ospedali pubblici non convenzionati con il debito pubblico come lo sono le cliniche private.

Ed è venuta la seconda ondata Covid: giunta, per via dell’affollamento dei trasporti pubblici riempitisi di studenti e di lavoratori e per la protervia dei commissari che pensavano a rotelle (sineddoche dei banchi di scuola a rotelle). Protervia degli incapaci, che ha vanificato gli sforzi eroici di miglia di professori e bidelli: per poi essere costretti a richiuderle, le scuole, in fretta e furia per l’incapacità di prevedere da parte del Governo e delle sue task force come ci si sposta per studiare e lavorare. Nel mentre la stessa borghesia vendidora, timorosa di perdere affarucci calcistici, preme sul Governo per riaprire gli stadi… come ha premuto quest’estate per riaprire le discoteche.

Se vogliamo salvarci l’industria manifatturiera deve essere posta al centro degli interventi di politica economica, legati o no ch’essi siano al Recovery fund oppure al prestito nazionale verso cui vanno tutte le mie preferenze. Ma è inutile insistere nel ragionare, se a governare e spesso anche a opporsi al Governo, ci sono gli irretiti nei rituali delle magie europeistiche: i ciechi di Bruegel seguono il pifferaio e precipitano nel pozzo. Non precipitiamo anche noi, che crediamo ancora nel lavoro e nell’onore del lavoro, come ci ha insegnato Charles Péguy.

In ogni caso occorre smetterla di polemizzare. La prima cosa da fare, ora, è porre al riparo l’industria manifatturiera e i suoi lavoratori, i suoi quadri intermedi, i suoi operai i suoi dirigenti, i suoi proprietari da un possibile, nuovo, lockdown. È possibile: nelle fabbriche si lavora da decenni con le isole di lavoro, gli operai sono naturalmente distanziati, i rischi di contagio sono ridotti. E i sussidi dovrebbero essere previsti solo per incentivare il passaggio ad attività artigianali, agricole, industriali. Forse in questo modo si contribuirà a invertire la rotta che vede l’assenza di manodopera mentre si assiste al boom di frequenze negli istituti alberghieri, intanto che quelli tecnici e professionali per chimici e meccanici, di cui vi è gran bisogno, son quasi deserti. Questa tendenza deve essere invertita. E la liberalizzazione delle licenze commerciali, alla luce del mondo post Covid, dovrebbe essere eliminata. Infine, il settore del turismo va ripensato, come pure il suo legame con il territorio: non deve più essere trasformato in una semplice cartolina del grande inquinamento antropologico.

Come pronosticato da molti che sanno un poco di statistica e molto di sociologia, con la stagione autunnale e in vista di quella invernale, il virus è mutato e si diffonde vieppiù, puntando forse verso l’immunità di gregge. Tutta Europa, seppur gradualmente, è costretta a correre ai ripari con misure via via sempre più restrittive che somigliano molto a un secondo lockdown.

Però la ripresa, non solo quella europea, ma anche quella globale, si allontanerà se non si continuerà a investire per la crescita. Se ciò non avverrà si verificheranno, più di quanto oggi già non sia, inevitabili ripercussioni sul debito pubblico, che lievità oltre le previsioni.  L’Italia ha il rapporto tra debito e Pil al 160%, mentre Francia e Spagna sfondano quota 130%, con la Germania che non va oltre il 75%, grazie al suo monumentale Pil e al surplus commerciale che consente investimenti pubblici nazionali eccezionali. Così l’Europa rischia di rallentare, perché la stragrande maggioranza del debito è malsano, non diretto a investimenti e quindi non diretto alla crescita. È in questo contesto che torna a farsi strada l’ipotesi di cancellare i debiti contratti durante la pandemia del Covid.

È in corso su di ciò una discussione fra i commissari di Bruxelles. Si tratta, del resto, di far sopravvivere l’Unione Europea, con Italia, Spagna, Grecia e Francia che premono sulla Bce per cancellare il debito. Senza quella cancellazione l’auspicata ripresa a V diventa sempre più difficile e sembra cedere il passo a una più probabile ripresa a W.

Si insiste costantemente affermando che la Bce e l’Ue stiano facendo molto per sostenere l’economia delle nazioni “deboli”, da una parte con il piano di acquisti di titoli e il mantenimento di bassi tassi di interesse, dall’altra con il possibile varo del Recovery fund e altri fondi annessi. Ma per i Paesi maggiormente in difficoltà tali interventi, pur importantissimi – e senza dimenticare il pilota automatico che si porrebbe in marcia appena lo spirito dei tempi si rivelerà favorevole alla neo-austerità che ci attende dietro l’angolo quando il Covid si sarà placato -, potrebbero non bastare a far decollare stabilmente l’economia europea e quindi mondiale.

Dal 2015 a fine settembre 2020 la Bce ha acquistato circa 3.000 miliardi di euro di debiti pubblici ed entro la fine del 2020 potrebbe aver acquisito 400-500 miliardi di titoli pubblici italiani. Ebbene, di fronte a ciò, la proposta di Paul De Grauwe e André Grjebine è quella che Christine Lagarde annulli completamente tale credito.

Se la banca centrale annullasse un suo credito, sostengono i due economisti, non danneggerebbe nessuno, perché quel passivo non è rivendicabile da alcuna entità. Nel 2013, essi ricordano, la Banca dei regolamenti internazionali pubblicò un rapporto nel quale sottolineava che una banca centrale può benissimo avere mezzi propri negativi. Per rispondere all’inevitabile reazione della Corte costituzionale tedesca, non si tratterebbe di annullare formalmente i debiti, ma di trasformarli in una rendita perpetua che la Bce deterrebbe nei confronti degli Stati a tassi di interesse nulli.

Insomma, una via d’uscita esiste e si potrebbe riprendere la crescita su basi solide anche e nonostante la pandemia. Hic Rhodus, hic salta!