“Per l’Italia contare nel Mediterraneo vuol dire contare in Europa”. Michela Mercuri, docente di geopolitica del Medio oriente nell’Università Niccolò Cusano ed esperta di Libia, spiega così l’importanza di un rilancio della nostra politica estera in quest’area. Non c’è solo il problema dell’immigrazione, ma anche la necessità di stabilizzare Paesi che hanno forti legami con il nostro e un ruolo strategico. I migranti, ma non solo, sono tra i temi che il ministro dell’Interno e quello degli Esteri del Governo Meloni sono andati ieri a discutere in Tunisia. Ma c’è anche un atro fronte che attende il Governo: la Libia.



Piantedosi e Tajani hanno incontrato le autorità tunisine per confrontarsi sul tema dell’immigrazione. Cosa possono ottenere di concreto in termini di controllo delle partenze?

In primo luogo una partnership bilaterale rafforzata, chiamiamola cabina di regia congiunta per il controllo delle frontiere tunisine da attuare con un rafforzamento della guardia costiera tunisina anche attraverso supporti e finanziamenti da parte dell’Italia, facendo molta attenzione che vadano “nelle mani giuste”. È necessario attuare meccanismi e sistemi di monitoraggio degli aiuti erogati. Poi ci sono i rimpatri. Si è parlato di 80 rimpatri settimanali, circa due voli a settimana. Questo sarebbe l’obiettivo-target.



A quali condizioni si può raggiungere?

Si potrà realizzare soltanto con una Tunisia più stabile dal punto di vista della sicurezza: lì operano numerose organizzazioni criminali che lucrano sul traffico dei migranti soprattutto attraverso gli sbarchi fantasma, spesso in connessione con organizzazioni jihadiste, ma anche con organizzazioni criminali che lavorano in Italia.

Proprio i tunisini sono tra i più numerosi a sbarcare sulle coste italiane. Un fenomeno dovuto anche ai problemi economici con la Tunisia. Per controllare gli sbarchi occorre agire anche su questo?

Quasi per tutto il 2022 la prima nazionalità di sbarco in Italia è stata quella tunisina. Gli sbarchi dalla Tunisia sono aumentati tantissimo anche a causa della scarsità di beni di prima necessità, dei prezzi alle stelle, dell’inflazione galoppante. La Tunisia è un Paese che vive in estrema povertà, soprattutto nelle aree periferiche. È necessario supportarla in un percorso di ripresa economica attraverso investimenti nel Paese. I giovani tunisini sono mediamente molto istruiti: non trovando sbocchi professionali tentano la carta della migrazione.



Tunisi ha sviluppato diversi progetti dal punto di vista energetico, delle fonti rinnovabili: la collaborazione con l’Italia deve riguardare anche questo aspetto?

Nel settore dell’energia la Tunisia sta investendo molto. Ha recentemente lanciato un progetto da circa 1 miliardo e mezzo di euro di investimenti in energie rinnovabili per il biennio 2023-2025. È un’occasione per l’Italia, per la nostra Eni, che sta puntando sulle rinnovabili non solamente in Tunisia ma in molti altri Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. In Tunisia Eni a novembre ha inaugurato un impianto fotovoltaico. Uno dei principali problemi, come anche per la Libia, è quello della scarsità di energia elettrica e questo causa proteste tra la popolazione.

Intanto in Libia tengono banco le dichiarazioni del presidente della Camera dei rappresentanti di Tobruk Aguila Saleh, che ha ribadito la centralità del Parlamento e la distanza dal Senato. Il Paese rimane diviso: è possibile trovare una stabilità? Quali sono i primi passi da compiere?

La Libia è un Paese diviso ormai da 11 anni, dalla caduta di Gheddafi. Divisa tra due grandi poli, quello della Tripolitania controllato da Dbeibah, voluto dalla comunità internazionale, mentre dall’altra parte abbiamo il parlamento di Tobruk, ma soprattutto il generale Kalifa Haftar. Qui abbiamo la grande criticità: Haftar non riconosce Dbeibah e viceversa. Le soluzioni sono difficili e a lungo termine: sarebbe necessario un interlocutore diverso, che possa piacere alla maggior parte dei libici perché molti non si riconoscono né in Dbeibah né in Haftar.

C’è poi il nodo mai sciolto delle elezioni.

infatti. Bisognerebbe iniziare un percorso elettorale, ma con una Libia quantomeno leggermente stabilizzata. Non dobbiamo pensare di fare le elezioni per stabilizzare il Paese, ma di stabilizzare il Paese per poi fare le elezioni. Questo approccio inverso della comunità internazionale ha penalizzato il processo di pacificazione negli ultimi dieci anni. La cosa migliore da fare ora è dialogare sia con Haftar sia con Dbeibah. Circa il 20% delle partenze e degli arrivi in Italia degli ultimi mesi sulla rotta del Mediterraneo partivano dalla Cirenaica e sicuramente ci sarà lo zampino di Haftar che vuole un riconoscimento.

La Libia ha un’importanza strategica anche per l’Italia. Come si sta muovendo il nostro Governo in questo ambito tenendo conto della pluralità di nazioni che attualmente hanno interessi in questa area?

L’Italia può sfruttare gli asset che ha: l’ambasciata rimasta aperta anche durante la guerra nel 2019, gli investimenti dell’Eni, il dialogo con i libici mai chiuso. Però in questo momento in Tripolitania domina la Turchia che ha numerosi interessi e basi. In questi dieci anni la Libia è diventata un terreno di guerre per procura ma anche un terreno di interessi per molti attori. Nell’Ovest innanzitutto la Turchia, che vuole soddisfare la sua ambiziosa proiezione marittima. Poi abbiamo l’Est, dove domina Haftar ma in cui ci sono anche i mercenari della Wagner, una forte presenza e influenza russa e anche dell’Egitto.

Interlocutori di cui non si può fare a meno?

Per entrare in Libia dobbiamo bussare alla porta di alcuni di questi attori. Dieci anni fa non era necessario perché avevamo un filo diretto con Gheddafi, ora per colpa nostra e del nostro disinteresse dobbiamo dialogare con questi attori, in modo particolare con la Turchia e credo, in un secondo step, l’Egitto. Eni tra l’altro ha scoperto un nuovo giacimento in terra egiziana: il dialogo credo sia importante da molti punti di vista. Questa strategia integrata del Governo in Nord Africa, se perseguita costantemente in maniera sinergica con le autorità locali, può essere una possibilità di riportare l’Italia al centro del Mediterraneo o comunque di renderla di nuovo un interlocutore importante. Quel ponte che era e che poi, vista l’assenza di politiche costanti dei Governi precedenti, non è più stata.

(Paolo Rossetti)

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