Per cercare di comprendere dove sia l’Italia nel grafico della guerra in Medio Oriente, è bene collegare due fatti, apparentemente non strettamente collegati tra loro.

5 febbraio. La missione europea Aspides nel Mar Rosso è ai blocchi di partenza (il prossimo 19 febbraio la riunione decisiva a Bruxelles), e i terroristi yemeniti Houthi tentano opere di dissuasione, come il messaggio inviato all’Italia, Paese che sta per assumere il comando tattico dell’operazione: una postura che per i ribelli “mette a repentaglio la sicurezza delle sue navi militari e commerciali”, come ha minacciato Nasr al-Din Amer, vicecapo dell’Autorità Houthi per i media.



Inevitabile la risposta del ministro agli Esteri italiano, Tajani: “L’Italia non si fa intimidire: obiettivo della missione è la difesa del traffico marittimo. Non attacchiamo nessuno, ma se ci saranno attacchi risponderemo”. “Le minacce degli Houti nei nostri confronti – ha precisato il ministero della Difesa italiano – sono parte della loro guerra ibrida. Attaccare navi commerciali di nazioni estranee a ciò che accade a Gaza, disseminare false informazioni, lasciar passare liberamente nel Mar Rosso le navi della Federazione Russa e della Cina ma non le altre, minacciare l’Italia per l’assunzione del comando tattico dell’Operazione Aspides, che ha come unico scopo la difesa della nostre navi e della libera navigazione, sono tentativi di minare la coesione nostra e dell’Unione Europea. Gli Houti vogliono convincerci che accettare in silenzio i ricatti del terrorismo e girarsi dall’altra parte in luogo di difendere la sicurezza e la libera navigazione, che è ciò che farà Aspides, sia la cosa giusta da fare, la più conveniente. Il tentativo degli Houti di dimostrare che la migliore strategia sarebbe non schierarsi o accettare, senza reagire, la loro violenza è parte della disinformazione tipica di questa organizzazione terroristica”.



13 febbraio. Al 128esimo giorno di guerra, dopo le inedite esternazioni del vicepremier Antonio Tajani (“La reazione di Israele a Gaza è sproporzionata e ci sono troppe vittime che non hanno nulla a che fare con Hamas”), e le telefonate tra Schlein e Meloni, è passata alla Camera (con la complice astensione della maggioranza: 159 astenuti, 128 sì, nessun no) la mozione del Pd che impegna il governo a “sostenere ogni iniziativa volta alla liberazione incondizionata degli ostaggi israeliani e chiedere un immediato cessate il fuoco umanitario a Gaza, al fine di tutelare l’incolumità della popolazione civile di Gaza, garantendo altresì la fornitura di aiuti umanitari continui, rapidi e sicuri all’interno della Striscia”. “Finalmente l’Italia torna sui binari della sua tradizione diplomatica, da cui stava deragliando. Oggi anche il nostro Paese è tra coloro che vogliono fermare lo sciagurato proposito di Netanyahu dell’offensiva a Rafah, una catastrofe nella catastrofe” ha commentato Peppe Provenzano, responsabile Esteri del Pd.



Questi i due fatti. Dunque, l’Italia assume un nuovo profilo diplomatico, che chiaramente appoggia sulle recenti posizioni di Washington, con Biden fortemente critico verso le massicce operazioni volute da Netanyahu sulla Striscia (si sta arrivando a 30mila vittime civili), ma che ancor più sembrano volte a garantire alla partecipazione italiana in Aspides una certa dose di salvaguardia. È questo il collegamento. Tradotto: sì, comanderemo la flotta europea sul Mar Rosso, ma ripetiamo che la nostra, al contrario della Prosperity Guardian angloamericana, sarà una missione solo difensiva, e non attaccheremo alcun obiettivo yemenita a terra. Non solo: la mozione votata l’altro giorno alla Camera parla apertamente di un cessate il fuoco a Gaza e del via libera a massicci aiuti umanitari.

Difficile dire se tutto questo basterà ad evitare che le navi di Aspides (con il nostro cacciatorpediniere Caio Duilio in testa), e i bastimenti sotto il loro ombrello, finiscano bersagli dei missili e dei droni armati degli Houthi. Molto probabilmente no, ma è chiaro che vale la pena tentare.

Quella che invece è molto evidente è la prudenza, con l’obiettivo di non fomentare un’escalation del conflitto che sta devastando il Vicino e Medio Oriente a macchia di leopardo, in zone di guerra conclamata (Gaza) e in altre a low intensity conflict (tra Libano ed Israele o in compound americani in territori siriani e iracheni o negli acquartieramenti in quelle stesse terre dei guerriglieri dell’internazionale sciita).

Una prudenza che sembra ingenua di fronte ai razzi su Israele che ancora vengono lanciati da zone di Gaza nord, quartiere che dovrebbe essere stato “bonificato”, o ai due missili balistici Fateh (portata di 1.700 chilometri) lanciati l’altro giorno “per esercitazione” dalla nave da guerra iraniana Shahid Mahdavi, o dai continui attacchi Houthi contro le navi di passaggio: due giorni fa un missile yemenita ha colpito perfino un cargo greco che era diretto in Iran, proprio il Paese di riferimento per i ribelli.

Inutile aspettarsi dei riguardi, insomma. Il tutto mentre a Gaza sud Israele è riuscita a liberare due ostaggi e adesso programma i tank a Rafah, ultimo rifugio per oltre un milione di palestinesi nella Striscia, promettendo ai civili corridoi sicuri per lasciare la città, ma senza precisare dove mai potrebbero rintanarsi, visto che l’unico confine è quello con l’Egitto, che lo ha chiuso ermeticamente.

Oggi, nel peggioramento degli umori mondiali contro i massacri di Gaza, con il rischio per Israele di ritrovarsi pericolosamente isolata, logica vorrebbe che Netanyahu optasse quantomeno per una tregua; non fosse che così facendo finirebbe nelle graticole dell’ultradestra, unica sua vera sostenitrice attuale, in un clima di devastanti incertezze elettorali in cui i coloni si sentono in diritto di occupare ovunque (nella West Bank o nei litorali della Striscia) nuovi territori.

Netanyahu si ostina nel disegno di eliminare la minaccia Hamas una volta per tutte, ma per riuscirci davvero sta trasformando Gaza in un cumulo di macerie, sotto le quali però resistono ancora tunnel e quartier generali dei terroristi. Le soluzioni sono due, entrambe terribili: fermare le IDF di Tel Aviv, in un semilavorato che non potrà azzerare il pericolo degli attacchi di Hamas, ed anzi darà spazio a intere nuove generazioni di martiri islamisti, anche se concentrati in un ipotetico secondo Stato; o proseguire nelle occupazioni, con un calcolatore impazzito di morti e feriti. L’unica speranza, ogni giorno però sempre più debole, resta nelle mani dei palestinesi, un popolo che non è ancora riuscito ad arginare il contagio del fanatismo islamico ed anti-israeliano, e che proprio per questa sua passività oggi sta pagando un prezzo assurdo.

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