“Davanti ad esperienze come queste si scopre quanto l’uomo possa spingersi nel bene” mi ha detto durante un’intervista fra Piergiacomo che è cappellano all’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo (un ospedale che più di ogni altro si trova sotto il fuoco quotidiano del Coronavirus). Lo dice avendo presente le decine di medici e infermieri che ogni giorno varcano quelle soglie oltre le quali la lotta a Covid 19 è più drammatica. Il “bene” infatti ha questa dimensione concreta, drammatica, ben diversa da quella sentimentale, come siamo abituati ad intendere. Una dimensione che comporta prezzi pesanti, se è vero che il 12% dei contagiati in Lombardia fanno parte del personale sanitario. Il “bene” è un territorio molto concreto nel quale ci si deve inoltrare con coraggio, con gratuità (non c’è ritorno come abitualmente lo intendiamo, né in denaro né in immagine).



Spingersi nel “bene” vuol dire ad esempio mettere l’altro prima di se stessi: il “bene” implica un dono di sé. Quanti uomini e donne in questi giorni stanno spingendosi nei territori del “bene”? Tantissimi: pensiamo a chi segue le disabilità gravi, a chi sta nelle comunità di recupero, dove tanti operatori hanno scelto di stare stabilmente con i ragazzi per abbattere i rischi di contagio. Ma pensiamo anche a chi assiste gli anziani nelle case di riposo, che sono un vero concentrato di fragilità. Tutti luoghi che in questi giorni vivono difficili clausure, dove alle abituali difficoltà si aggiunge il senso di solitudine e di oppressione.



Non è facile e non è scontato, come ha sperimentato il papa che ieri alla messa mattutina delle 7 (che va in diretta su Tv2000 con ascolti record, un grande regalo per queste giornate) ha dovuto rimproverare la “sua” chiesa per eccesso di prudenza, perché la diocesi di Roma aveva deciso di tenere chiuse le parrocchie e tutti gli edifici di culto. “Interdette a tutti i fedeli” c’era scritto in termini perentori nel decreto diocesano: il papa vi ha letto una resistenza ad inoltrarsi nei territori del “bene” e ha detto la sua senza mezze parole, come un vero padre deve fare. Poi ieri è seguita la marcia indietro: le parrocchie restano aperte, luogo possibile di incontro per ognuno con il Signore.



Il papa in questi giorni ha indicato anche un’altra dimensione del “bene”: quella di uno sguardo largo, capace di abbracciare anche altre situazioni di sofferenza che oggi segnano il mondo. Naturalmente il riferimento va al dramma dei profughi siriani che premono alle porte dell’Europa e per i quali il Covid 19, paradossalmente, è il rischio minore.

Se dobbiamo pensare a cosa sarà l’Italia del dopo virus, dobbiamo auspicare un nuovo inizio che abbia come base queste esperienze vissute di “bene”, fibra costitutiva di quello che potremo sentire davvero come un popolo. Come ha detto lucidamente il cardinal Matteo Zuppi, quello che stiamo vivendo è infatti “un’epifania del male che supera tutti i confini e i muri dietro i quali pensavamo essere tranquilli”; un male che è “come un reagente che rivela le nostre debolezze, le incapacità strutturali, la difficoltà a pensarsi assieme e a cercare risposte condivise”. Per sconfiggere quel male ci vuole un “bene” potente e gratuito, disposto a scendere in campo come si va ad una battaglia.

Nell’affresco del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti a Siena, il cuore del sistema “ideale” coincide con la figura del “bene comune”: la più grande di dimensioni e quella verso cui converge tutta la narrazione. Alla sua destra e alla sua sinistra stanno la Prudenza e la Magnanimità. Ma ai suoi piedi ci sono soldati armati di lance pronti a difenderlo. Il “bene” non è una pia intenzione né una questione di regole corrette. Oggi lo si afferma combattendo nelle sale di terapie intensiva. Domani sarà un tesoro nelle nostre mani per reimmaginare il futuro.

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