Ci stiamo lasciando alle spalle l’epidemia nazionale. Nella settimana dal 24 al 30 maggio, i morti attribuiti al coronavirus sono stati 117 in media per giorno, valore che non si registrava dall’ottobre scorso. Entro una settimana dovrebbero scendere sotto i 90 e nel giro di un’altra settimana attorno ai 50 morti al giorno. Si tornerà così alla situazione di inizio ottobre, prima che iniziasse ad imperversare la seconda ondata epidemica. Se si tiene conto che la letalità si manifesta a due-tre settimane dal contagio e che, in fase discendente come l’attuale, la situazione della prossima settimana sarà migliore di quella corrente, possiamo tirare un sospiro di sollievo. Tutto ciò grazie ai vaccini.
La curva delle inoculazioni (Figura 1) mostra che progrediamo regolarmente nell’immunizzazione degli italiani, in linea con la maggior parte dei paesi europei. Ogni giorno, in media, si immunizzano con una prima dose dai 290 ai 300mila italiani. Il vaccino ha dimostrato una straordinaria capacità di circoscrivere i contagi e ciò implica non solo che va intensificata l’operazione vaccinale, ma anche che possiamo – anzi dobbiamo – pensare sin d’ora al dopo-pandemia, ossia a come sistemare le macerie di questa tragedia e a come ricostruire moralmente e fisicamente il Paese.
Figura 1. Percentuale di popolazione a cui è stata inoculata almeno una dose di vaccino anti-Covid nei paesi con almeno 10 milioni di abitanti, al 30 maggio 2021 (fonte: https://ourworldindata.org/covid-vaccinations)
La pandemia di macerie ne ha fatte un bel po’. Quelle sanitarie sono solo la parte più evidente. Ce ne sono di altro tipo, materiali e morali. La gente si è sentita attaccata non solo da un nemico invisibile e pericoloso, qual è il virus, ma ha patito anche l’urto del lockdown sui rapporti economici e sociali. Rispetto agli effetti che ha avuto sulla popolazione, non è azzardato paragonare la pandemia ad una guerra. La pandemia ha reso la gente più apatica, più chiusa in sé stessa, più conservativa di ciò che possiede, e molto più incerta sul futuro.
Riusciranno gli italiani a rimuovere dalla psiche e dai comportamenti sociali gli effetti della pandemia? E se li rimuoveranno, tornerà tutto come prima della pandemia oppure ci saranno dei cambiamenti radicali? Possiamo ragionare per analogia. Se è vero che la pandemia è stata uno shock simile ad una guerra, possiamo immaginare come potrebbe essere il futuro dopo uno sconvolgimento mondiale causato dal coronavirus. Non sapremo mai con certezza se è stato prodotto in un laboratorio di Wuhan, ma non ci vuole tanta fantasia per temere che il virus che sta per uscire di scena sia solo uno dei tanti che uno scienziato pazzo è capace di produrre nel proprio laboratorio (ma sappiamo che tanti non-scienziati, più o meno pazzi, stanno creandone altri). Pertanto, la domanda cruciale diventa: appena finita la pandemia, gli italiani si comporteranno come se ne temessero subito un’altra, e quindi vivranno il futuro con apprensione, oppure saranno subito vitali come sono stati dopo la fine di ogni guerra? Cominciamo l’analisi della vitalità possibile introducendo il problema demografico.
In Italia, è stato registrato nel 2020 l’ennesimo calo delle nascite (Figura 2). Siccome l’anno scorso eravamo in emergenza, qualcuno ha ipotizzato che il calo fosse superiore a quello che ci si poteva attendere sulla base dell’andamento storico. Si è detto, infatti, che, a causa del virus, non solo è continuato il declino della natalità in corso da anni, ma si è aggiunto un “effetto epidemia” che ha negativamente inciso sulla propensione a procreare delle coppie italiane. Il clamore mediatico dell’effetto è certamente esagerato (come tanti altri fenomeni durante questa epidemia), anzi possiamo senza dubbi affermare che l’effetto sul 2020 è statisticamente irrilevante. Di rilevante c’è solo che i nati nel 2020 sono stati 404.104, il valore più basso da quando esiste la Repubblica italiana.
Figura 2. Numero di nati in Italia, per anno (fonte: nostra elaborazione di dati Istat; i periodi segnati in rosso fanno riferimento a decenni)
Dati i tempi necessari per mettere al mondo un figlio, può darsi che l’effetto della pandemia si possa vedere più nitidamente nel 2021, quando saranno evidenti gli effetti della seconda e delle successive fiammate epidemiche. Infatti, a fiaccare la resistenza degli italiani non è stata la prima fiammata, durata pochi mesi, ma la facilità con cui il contagio è riesploso dopo l’estate del 2020, quando tutto sembrava finito, nonché la difficoltà di circoscrivere i contagi registrati nella seconda grande fiammata di settembre-ottobre e nelle successive due fiammate che sono state di impatto inferiore ma ugualmente perniciose. Quindi, può darsi che nel 2021 i figli calino anche rispetto al 2020, ma può anche darsi che si verifichi una ripresa, come spieghiamo nel seguito.
Se si osserva con attenzione la serie storica dei nati (Figura 2), si nota che il numero di nati nel 2020 è pari al 70% del massimo registrato negli ultimi venti anni. Il massimo si è registrato nel 2008, ultimo anno di crescita nel numero di nati negli anni duemila. Da quell’anno, infatti, le nascite sono costantemente diminuite: dal 2009 al 2020 il calo medio annuo è stato del 3% e nel 2020 è stato del 3,8% rispetto al 2019.
Il calo della natalità è dovuto a due fenomeni concomitanti: 1) la diminuzione del numero di figli per donna “feconda”, ossia in grado di procreare (detto “tasso di fecondità”); 2) la diminuzione del numero di donne nelle età in cui è possibile procreare. Sul secondo fenomeno c’è poco da fare: solo se cresce il numero di nati ci saranno fra circa vent’anni più donne in grado di procreare. Sul primo fenomeno, invece, la storia dimostra che si può invertire la tendenza. Che il calo della natalità sia reversibile lo dimostra l’andamento del tasso di natalità nei primi anni del duemila: dal 1999 al 2008, infatti, le nascite sono aumentate regolarmente, perché le italiane, individualmente, hanno ripreso a fare più figli. Nel 1999, in media, un’italiana in grado di farlo procreava 1,23 figli, il valore più basso nel mondo, ma da quell’anno e fino al 2010 le italiane ne hanno fatto sempre di più, fino a farne 1,46 per donna (Figura 3). Non era un gran numero rispetto al resto del mondo, ma era un numero promettente. Poi siamo scesi di nuovo: nel 2020 siamo a 1,25 figli per donna feconda. Pochissimo, stiamo precipitando.
Nelle Figure 2 e 3 i primi periodi, inerenti agli anni dal dopoguerra al 2000, sono segnati in rosso perché sono la nostra “preistoria” demografica, un’epoca in cui ogni anno nasceva quasi un milione di nuovi italiani e il tasso di fecondità, per una ventina d’anni, è stato superiore a 2. Un valore di 2 figli per donna si potrebbe raggiungere in Italia solo se si diffondesse un atteggiamento verso la procreazione simile a quello che, nel Regno Unito (che per molti anni ha avuto statistiche simili alle nostre), sta riportando il tasso di fecondità verso 2, un numero-traguardo, poiché sta a significare che ogni coppia procrea due figli che, in condizioni ideali, perpetuano la struttura demografica di un paese.
Figura 3. Tasso di fecondità femminile (nati per donna feconda) in Italia, per anno (fonte: nostra elaborazione di dati Istat; i periodi segnati in rosso fanno riferimento a decenni)
Si può, dunque, ritornare in Italia a tassi di fecondità che non siano i più bassi del mondo? Si potrebbe scommettere sul sì, dato che la pulsione vitale della popolazione dopo un grave evento storico è superiore a quella di prima. Tuttavia, quella pulsione si sviluppa se l’intera società raggiunge la consapevolezza che troppi pochi giovani sono un grave problema sociale e se i governanti sono capaci di tradurre questa consapevolezza in politiche pubbliche.
La gestione dei figli è un’attività non banale per una madre. Anzitutto perché le donne vogliono – e in non pochi casi, devono – lavorare. I figli sono un impegno organizzativo per la madre: l’assistenza dello Stato quasi mai copre l’intera giornata di lavoro. Ci sono esperienze di asili sui posti di lavoro e altre forme di conciliazione lavoro-famiglia: onore a quegli imprenditori che così favoriscono il lavoro femminile. Poi ci sono i nonni, le babysitter e i partner a supplire dove finisce l’assistenza dello Stato. Ma i figli sono esseri sociali da portare a fare attività fisiche, musicali, artistiche, di socializzazione con gli amici. Per quanto proattiva sia una madre, la conciliazione del lavoro con il resto del mondo è difficile, ci vuole una volontà di ferro.
Fare anche un solo figlio è una decisione strategica per una coppia. La decisione è più facile se la comunità, senza infingimenti, fa capire alle coppie che mettere al mondo dei figli ha anche un valore sociale. Quindi, vanno bene i bonus-bebè, ma il credere che la decisione di fare un figlio possa essere determinata da un bonus equivale a sperare che fare un regalo ad una persona risolva un problema affettivo che non si sa come sbrogliare.
Bisogna andare alla radice della questione, bisogna che chi governa si dimostri seriamente convinto dell’utilità sociale del rinnovamento biologico della popolazione, solo così potremo convincere le italiane che i figli li fanno non solo per il loro piacimento, ma anche perché (loro e i figli) hanno un ruolo sociale.
Ruolo che va riconosciuto in modo tangibile. Perché non si riconosce alle donne con due o più figli un bonus sulle tasse che viene perpetuato finché i figli non sono maggiorenni? Perché non si fissano delle regole (soprattutto ora che inizia l’enorme processo di spesa per la ripartenza post-Covid) che privilegiano l’assunzione di donne che hanno figli rispetto a quelle che non ne hanno? Qualcuno dirà che è discriminazione, ma lo è anche stabilire delle quote di assunzioni distinte per sesso ed età. Così come si vogliono dare segnali positivi per il lavoro femminile e quello giovanile, si dia un altro segnale sociale importante. Se non si fa così, si perpetua solo l’infingimento dei piccoli regali.
I giornali esaltano le enormi spese infrastrutturali che il governo Draghi sta per fare, in parte con fondi europei, in parte anticipando le disponibilità economiche delle prossime generazioni di italiani. Una solida struttura demografica è, si può dire, un’infrastruttura sociale, la quale avrà bisogno di strade veloci, di pubblica amministrazione digitalizzata e di tecnologia, ma che, alla fine del progetto, dovrà in primo luogo esistere e consistere, altrimenti faremo le strade veloci per i vecchi a cui il correre, di norma, è estraneo. Lo Stato abbia il coraggio di far sì che le future generazioni non siano inconsistenti. Come dicevano i nostri progenitori: Primum vivere, deinde philosophari. Vale per tutti, anche per le nazioni.
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