La data fatidica, annunciata da Donald Trump, è il 2 aprile, proclamato “giorno della liberazione degli Stati Uniti”. A quel punto si dovrebbe sapere con quali e quanti dazi la Casa Bianca vorrà colpire i prodotti dell’Unione europea.
Il condizionale è d’obbligo vista la capricciosa politica alla quale il Presidente americano ci ha già abituati. Ma ancor prima di conoscere i dettagli una cosa è chiara: il neo-protezionismo a stelle e strisce penalizza l’economia di tutto il mondo, compresa quella degli Usa. Il primo impatto sarà sui prezzi destinati a salire, il secondo immediatamente dopo sulla crescita destinata a rallentare o a fermarsi in Paesi che già stanno scontando una sostanziale stagnazione, la Germania innanzitutto.
Tutti gli osservatori internazionali hanno già suonato il campanello d’allarme, ultima in ordine di tempo giovedì scorso la Bce. Se le tariffe imposte saranno del 25% il prodotto lordo dell’area euro scenderà dello 0,3%, mentre i prezzi dovrebbero salire di mezzo punto percentuale. Sembra poco, ma è una vera doccia fredda su una zona euro la cui crescita è prevista allo 0,8% quest’anno. Quanto ai prezzi potrebbero portare l’inflazione al 3%, più di quanto aveva previsto la Bce (+2,5%). Ciò significa che il costo del denaro non scenderà e la riduzione dei tassi d’interesse è destinata a fermarsi.
L’Italia è uno dei Paesi più colpiti dall’attacco di America First al libero scambio. L’Istat ha fatto i conti e prevede che saranno coinvolte in un modo o nell’altro sei imprese manifatturiere su dieci, con quote maggiori tra le piccole e le medie imprese (meno di 250 addetti). Poco meno della metà troverebbe difficile rimpiazzare il principale cliente estero e il 31,1% sostituire il principale fornitore di materie prime. In questo caso risultano più esposte le imprese di medie dimensioni (50-249 addetti).
Si parla di 23 mila aziende italiane in base a quelle ritenute vulnerabili all’export nel 2022. Sono pari solo allo 0,5% del totale, ma hanno oltre 415 mila di addetti, generano il 3,5% del valore aggiunto e il 16,5% dell’export totali. Non sorprende che risultino esposte soprattutto alla domanda statunitense (quasi 3.300 unità, per un valore di 10 miliardi di export nel 2022) e tedesca (oltre 2.800 imprese, e 13,6 miliardi di vendite).
Negli ultimi anni, in particolare, quasi la metà del valore delle esportazioni italiane si è diretta fuori dell’Ue e il 10% negli Usa. Tanto che, riporta l’Istat, tra il 2019 e il 2023 le esportazioni tricolore in valore, sono significativamente aumentate soprattutto verso gli Stati Uniti (+47,5%) e la Cina (+47,8%).
L’Italia ha registrato nel 2024 un ampio avanzo commerciale verso il mercato americano (34,7 miliardi di euro) determinato da quattro grandi comparti manifatturieri: meccanica (10,8 miliardi di euro), alimentare-bevande-tabacco (oltre 7 miliardi), tessile-abbigliamento-pelli (oltre 5 miliardi) e mezzi di trasporto (6,1 miliardi, di cui 3,5 nel solo comparto degli autoveicoli). Secondo un indicatore di vulnerabilità che sintetizza il grado di dipendenza e di concentrazione delle importazioni di input intermedi, l’Italia risulta più vulnerabile alle forniture dall’estero rispetto a Germania, Cina e Stati Uniti.
L’export ha fatto da locomotiva in tutto il ciclo successivo alla crisi del debito sovrano, cioè dal 2012 e di nuovo con il forte rimbalzo economico subito dopo la pandemia. Va senza dubbio apprezzata la vitalità e la flessibilità del tessuto manifatturiero italiano, ma un’eccessiva esposizione verso il mercato internazionale si rivela controproducente ora che la globalizzazione viene rinnegata. Con un mercato domestico debole se non stagnante, appare quasi come una fuga, un modo per compensare la fragilità interna.
Viene così alla luce l’altra faccia della luna. È come se il protezionismo di Trump avesse messo in crisi un aspetto decisivo del modello italiano del dopo crisi, a lungo negato o rimosso non solo dai Governi, ma anche dal “mondo del lavoro”, dai sindacati e dalle organizzazioni imprenditoriali. E appare grave se non colpevole la mancanza di una politica industriale. Lo abbiamo ripetuto da tempo e adesso forse non c’è più tempo da perdere.
Il Governo dovrebbe aprire un “tavolo di crisi” per analizzare come reagire in modo sistemico. Invece sembra che prevalga la speranza di poter sfuggire alla mannaia trattando caso per caso. Attenti alle furbizie e alle illusioni, non è questa la risposta più efficace. Si sta cominciando a discutere su come sostenere le imprese aprendo loro le porte ad altri mercati dall’India all’Africa. Questo è importante purché ci si muova subito, in ogni caso è una strategia che darà risultati nel medio periodo.
Occorre intanto studiare interventi a breve. Si può pensare a un fondo ad hoc per sostenere le imprese più deboli. Nello stesso tempo bisogna recuperare interventi tipo Industria 4.0 visto che Industria 5.0 non funziona. Ciò può dare alimento alle imprese che intendono muoversi verso la parte più alta della scala del valore, aumentando innovazione e competitività.
Più in generale è il momento di dare priorità alla politica industriale anche nella gestione del bilancio pubblico troppo segnata da bonus, aiutini, detrazioni, scappatoie. Meno spesa corrente, insomma, più spesa produttiva: oggi è una scelta obbligata.
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