Un’intervista dell’amministratore delegato di RaiCom ed ex presidente Rai, Monica Maggioni, al presidente Bashar al Assad. Il 26 novembre. E un problema: in Rai non si sa dove mandarla in onda. Se lunedì non lo fate voi, lo facciamo noi, ha fatto sapere la presidenza siriana, secondo la quale c’era un accordo per diffonderla su Rainews e sui media siriani il 2 dicembre. Il mistero si infittisce nel leggere la nota di Fabrizio Salini diramata ieri mattina. “L’intervista al presidente siriano Bashar al Assad – ha detto l’Ad della Rai – realizzata da Monica Maggioni non è stata effettuata su commissione di alcuna testata Rai. Pertanto non poteva venire concordata a priori una data di messa in onda”. Salvo nuovi imprevisti, l’intervista sarà trasmessa oggi. Dove, in quale contenitore, è tuttora incerto.



Dunque un caso politico. Perché una ex presidente Rai mette nuovamente i panni dell’inviata in Medio oriente e intervista – per la seconda volta (la prima, anch’essa anomala, era stata nel 2015) – il rais di Damasco? Perché il ritardo, e soprattutto, lo scaricabarile? Sembra un problema interno alla tv pubblica, ma non è una spiegazione sufficiente, secondo Paolo Quercia, analista di politica estera, docente a Perugia e direttore del Cenass.



Perché definisce interessante quando detto dal ministro degli Esteri Di Maio al Corriere il 6 dicembre?

In quell’intervista, Di Maio apre al dialogo con Assad. Una posizione coraggiosa ma poco in linea con la visione dei 5 Stelle. Sarebbe interessante capire cosa c’è dietro.

Come sarebbe interessante capirne di più sull’intervista ad Assad fatta dalla Maggioni e non trasmessa.

Dubito che la Maggioni, ex presidente Rai e tutt’ora amministratrice di una società del gruppo, se ne vada in giro per la Siria come una freelance qualsiasi, per poi vedersi respinto il servizio dalle emittenti. Evidentemente, l’intervista da qualcuno è stata richiesta, anche perché fa il paio con l’intervista a Di Maio.



Cosa può essere successo?

Probabilmente il suo contenuto non è risultato gradito a qualcun altro. Temo che sia un caso esemplificativo della guerra tra bande in cui è intrappolata la nostra politica estera. Insomma, il ministro degli Esteri invoca più dialogo con Damasco e negli stessi giorni la tv di Stato censura un’intervista al presidente siriano. Qualcosa di strano c’è.

Allarghiamo il campo e facciamo un punto sul dossier libico.

Sono passati otto mesi dall’inizio dell’offensiva del generale Haftar e del suo Libya National Army contro la capitale. Ed anche se gli aggressori non sono riusciti né a prendere Tripoli né a provocare un rivolta, la capitale del paese continua a essere sotto le bombe, sono stati bloccati tutti i tentativi di pace delle Nazioni Unite e con essi la possibilità di un accordo politico tra le fazioni.

Un accordo, lei dice?

Forse era questo il vero obiettivo della campagna. Non è detto però che questa situazione di stallo rimarrà tale ancora a lungo.

Le sue previsioni?

I russi potrebbero fornire ad Haftar le capacità per tentare una spallata. Qualche segnale in questo senso si è intravisto nelle ultime settimane. La guerra si sta progressivamente spostando sul piano aereo, ed è sostanzialmente una guerra di droni. E lo stallo sul campo potrebbe sbloccarsi nel momento in cui una delle parti dovesse acquisire una superiorità aerea.

Qual è attualmente il ruolo degli attori europei?

La Francia ha quello più attivo, ma non direi determinante. Le principali ingerenze straniere sono extra-europee: Russia, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Turchia sono gli attori principali. Piuttosto assenti gli Usa. 

Come valuta l’appello lanciato sabato da Ghassan Salamé?

È un appello dal quale traspira tutta l’impotenza delle Nazioni Unite. Anche se il problema migratorio non è legato a quello del conflitto, sono due partite diverse. I flussi migratori irregolari dalla Libia ci sarebbero a prescindere. Anzi, il conflitto contribuisce a ridurne l’entità.   

Veniamo al ruolo dell’Italia.

La politica estera e di sicurezza dell’Italia è pressoché interamente assorbita dal dossier libico. Non possiamo dire che non ce ne stiamo occupando nonostante il basso profilo comunicativo del governo, che può essere una scelta anche comprensibile. Piuttosto, di questi sforzi si intravedono solo pochi e parziali risultati.

Se poi ci mettiamo anche la Siria, il quadro è scoraggiante.

Abbiamo un grosso problema di irrilevanza nei dossier internazionali: in Libia, nei Balcani, in Siria, come dimostra il modo in cui siamo stati marginalizzati nell’ultimo vertice Nato. Il problema dell’inefficacia della politica estera italiana è tuttavia una questione di lungo periodo.

Quando comincia?

Sarebbe un discorso ampio e complesso. Qui basti dire che oggi vengono al pettine decenni di una cultura di denigrazione degli interessi nazionali e di un approccio visionario e utopistico alle relazioni internazionali.

Il normalmente definito “debole” Fayez al Serraj ha firmato con Erdogan un accordo sui confini marittimi. Di che si tratta?

L’accordo è stato firmato a Istanbul il 27 novembre ed è probabilmente il prezzo pagato da Al Serraj per il decisivo supporto militare ricevuto dalla Turchia nella guerra civile libica. In esso vengono definiti i confini dei diritti di sovranità sulle due Zone economiche esclusive (Zee) e sulla rispettiva parte  della piattaforma continentale.

E qual è il suo significato politico di questo accordo?

La mossa di Ankara va letta nel contesto del contenzioso sulle esplorazioni di idrocarburi attorno a Cipro. La Zee turco-libica si incunea tra Cipro e Creta, mettendo in dubbio la possibilità di realizzare il gasdotto EastMed, quello che dovrebbe portare il gas cipriota nella Ue via Creta.

Turchia, Siria e Libia sono tre dossier molto delicati per l’Italia. Tre cose che dovrebbe fare il governo italiano per fare l’“interesse prevalente” del paese.

Mar Nero, Siria e Libia sono tre vertici di uno stesso triangolo geopolitico all’interno del quale Russia e Turchia stanno ridefinendo il potere sul mare nello spazio del Mediterraneo centro-orientale. Un processo che potrebbe produrre importanti conseguenze strategiche sulla regione. Ma mentre tutto ciò accade, il cono di luce dell’attenzione mediatica italiana non è su questi processi di territorializzazione del mare, ma sulle sardine. Mi pare chiaro che ci sia ben poco da fare.

(Federico Ferraù)