Nella sua prima uscita pubblica dopo il voto in Sardegna, Giorgia Meloni ha accostato la sconfitta del centrodestra ai “manganelli di Pisa”. Non ha avuto alcuna esitazione a proporre un collegamento a potenziale rischio di tendenziosità: l’analisi era già stata accreditata sulle prime pagine dei grandi media nazionali, anzitutto quelli di opposizione. “La maggioranza paga l’effetto manganello”, scolpiva martedì mattina non un opinionista di governo in vena di recriminazioni, ma un editorialista vicinissimo al Quirinale come Marcello Sorgi su La Stampa. È stato dunque lui – non unico – ad ammettere subito, con tono perentorio, che senza gli incidenti di Pisa di venerdì – e quindi senza la bolla politico-mediatica gonfiatasi sabato con l’intervento della presidenza della Repubblica – l’esito del voto di domenica avrebbe potuto essere diverso.
Affrontando la questione con questo approccio, la premier ha voluto anzitutto sottolineare un dato di fatto sistematicamente omesso o quasi da migliaia di contenuti giornalistici e social (comprese le note-stampa della presidenza della Repubblica): e cioè che gli studenti di Pisa – “repressi dai manganelli della polizia” – manifestavano a favore dei palestinesi e contro Israele nella crisi di Gaza. In un secondo momento Meloni ha messo in guardia anche contro i rischi di delegittimazione delle forze dell’ordine (una piega cui, a onor del vero, non è risultato estraneo neppure Palazzo Chigi: il trasferimento della dirigente della Squadra mobile di Firenze è parso un cedimento discutibile quasi quanto le pressioni istituzionali, politiche e mediatiche che l’hanno provocato. Uno fra gli scenari alternativi avrebbe potuto vedere – a monte verso l’alto – il capo della Polizia e/o il ministro degli Interni presentare le dimissioni, che il premier – con il Consiglio dei ministri – avrebbe potuto respingere, presentandosi poi in Parlamento per motivare le sue decisioni).
Meloni ha comunque ribadito di “non aver mai impedito di manifestare a favore dei palestinesi”: preoccupata, certamente, di allontanare da sé il sospetto di aver impartito al ministro dell’Interno e quindi alla polizia direttive strette sulla tutela della comunità ebraica in Italia, al fine di rispondere ai “desiderata” del governo israeliano. È infatti ancora fresca l’eco del caso “Ghali-Rai”, ai limiti della crisi diplomatica fra Roma e Gerusalemme (e una decina di giorni fa il Quirinale non ha avuto nulla da eccepire al fatto che un’espressione pro-palestinese di un giovane rapper, saettata attraverso il Festival di Sanremo, sia stata immediatamente sconfessata e censurata dalla Tv di Stato, su dura sollecitazione dell’ambasciata israeliana). Ma se il caso non è chiuso – e certamente non sembra esserlo per la Meloni – gli interrogativi tendono a moltiplicarsi.
Cosa sarebbe accaduto se a Pisa la polizia avesse lasciato indisturbati gli studenti? Non è ancora chiaro se veramente il corteo – frammischiato di appartenenti a centri sociali antagonisti – si stesse dirigendo verso “obiettivi sensibili” come la sinagoga e il cimitero ebraico. Però in quel pomeriggio concitato non era illecito supporlo o temerlo: certamente dal punto di vista delle forze di Polizia. Bene: cosa sarebbe accaduto se gli studenti fossero giunti minacciosamente davanti alla sinagoga intonando “Dal fiume al mare” o altri slogan di protesta? Com’è noto il Governo Netanyahu e la comunità ebraica internazionale giudicano queste manifestazioni “istigazione al genocidio”, cioè forma esemplare di odio antisemita. E cosa sarebbe accaduto se la manifestazione di Pisa avesse partorito gesti di sacrilegio e profanazione verso il cimitero ebraico (luogo purtroppo classico dell’odio antisemita in tutt’Europa)?
Non pare fuori luogo ipotizzare che dall’ambasciata israeliana e dalla comunità ebraica nazionale si sarebbero subito levate proteste vibrate. Che la senatrice a vita Liliana Segre avrebbe probabilmente chiesto al presidente Sergio Mattarella una pronta deplorazione dell’“odio razziale” trasudato dagli studenti, e aperta solidarietà verso il popolo ebraico, appena un mese dopo la Giornata della Memoria.
Invece è accaduto l’esatto contrario: silenzio assoluto sulla protezione – certamente dalle modalità improprie – accordata dai “manganelli” ai “luoghi sensibili” di Pisa; e un intervento non rituale del Quirinale rivolto esclusivamente contro il Governo e le forze dell’ordine, durante un sabato pre-elettorale, mentre la premier era impegnata a Kiev come leader del G7.
Su questo sfondo è spiccata anche la posizione quasi “di firma”– contro i “manganelli” – della leader del Pd Elly Schlein, figlia di un politologo israelita. La segretaria “dem” è stata poi la prima beneficiaria (con il leader M5s, Giuseppe Conte) di un’impostazione “resistenziale”, “antifascista” del voto sardo. Per Schlein i “manganelli del governo” si sono rivelati perfettamente win-win: hanno prima difeso la comunità ebraica a Pisa e poi portato voti al Pd in Sardegna. Al contrario Meloni è stata messa pubblicamente sotto accusa dal Quirinale come “premier di polizia” per aver disperso una manifestazione anti-ebraica; e per questo, d’altronde, ha pagato in tempo reale un prezzo alto in termini elettorali a favore dei “dem” (cioè del partito di cui è espressione anche il presidente della Repubblica, campione del contrasto all’antisemitismo).
È poco probabile – ma non impossibile – che Meloni affronti lo specifico “caso Pisa” nel suo incontro di oggi alla Casa Bianca con il presidente Joe Biden. Secondo l’ambasciata italiana Washington, l’obiettivo della due giorni della premier in Nord America “è innanzitutto quello di condividere con il Presidente Biden e con il Primo ministro Trudeau (il Canada prenderà il testimone nel 2025) le priorità della Presidenza italiana del G7: difesa del sistema internazionale basato sulla forza del diritto e continuo sostegno all’Ucraina; conflitto in Medio Oriente, con le relative conseguenze sull’agenda globale”.
Proprio il “conflitto in Medio Oriente”, per coincidenza singolare, sta dando un grosso grattacapo politico-elettorale interno anche al presidente “dem” degli Stati Uniti.
Mentre domenica si votava in Sardegna, i democratici del Michigan hanno tenuto le loro primarie in vista delle presidenziali di novembre. L’appuntamento era in partenza quasi simbolico: Biden – finora ricandidato – era l’unico “runner”. Ma l’esito non è stato affatto un plebiscito. A sorpresa – ma non troppo – 100mila partecipanti alla primaria su 618mila (il 13%) hanno votato “uncommitted”. Una “scheda bianca” da significato politico preciso e pesante: tutto-tranne-Biden (e in concreto due delegati del Michigan porteranno questa posizione alla convenzione democratica che in agosto a Chicago dovrà indicare il candidato per la Casa Bianca). Ma chi ha costruito, chi guida “Uncommitted”, già divenuto un brand politico?
Fra i leader c’è ad esempio Abdullah Hammoud, sindaco (dem) di Dearborn, un centro nella cintura di Detroit: dove il 40% della popolazione è di etnia araba. E dove da settimane monta la protesta per l’appoggio dato dall’amministrazione Biden a Israele su Gaza. Hammoud non è pero solo un “musulmano”: è – anzitutto – un 34enne con due master universitari (uno in sanità pubblica e uno in Business Administration). È un simpatizzante dei “dem liberal/radical” di Bernie Sanders. È un “quadro” di partito sulla carta assolutamente indispensabile a Biden per rivincere contro Donald Trump in uno Stato decisivo, in cui nel 2020 il ticket dem ha vinto di un’incollatura (nel 2016 invece vinse Trump). Eppure è a un passo dal clamoroso sabotaggio del suo presidente a vantaggio di Donald “Male Assoluto”. Ed è apparentemente la linea dei “dem” italiani (a cui capo c’è una ex attivista delle campagne presidenziali di Barack Obama e dello stesso Biden).
Paradosso (fino a un certo punto) è che invece resti leale a Biden la premier italiana di centrodestra Meloni: perfettamente rispettosa del suo ruolo istituzionale alla guida di un Paese Ue e Nato. Come membro del Consiglio Ue e ora leader di turno del G7, la premier italiana non ha mai messo in discussione la posizione di Roma nel Patto Atlantico e le relazioni con gli Usa. Il governo Meloni – ma prima ancora la leader FdI in campagna elettorale – ha confermato l’appoggio totale all’Ucraina contro l’aggressione russa deciso dal governo Draghi; e poi a Israele aggredito da Hamas.
Non è del resto mai accaduto diversamente in passato: neppure quando Mattarella è stato vicepremier di Massimo D’Alema e poi ministro della Difesa nel Governo Amato, a cavallo dell’“operazione militare speciale” della Nato contro la Serbia, pilotata dal “dem” Bill Clinton. Non è accaduto diversamente quando Giorgio Napolitano, dal Quirinale, trasse le conseguenze interne dell’“operazione militare speciale” Nato contro la Libia (con Obama e Biden alla Casa Bianca) per rimuovere per sempre il premier Silvio Berlusconi (in quel governo era ministro la stessa Meloni). È stato semmai negli ultimi due anni (prima con Mario Draghi, convintamente pro Kiev, e poi con Meloni a Palazzo Chigi) che Pd e M5s hanno tenuto dall’opposizione una postura mai del tutto decifrabile e quasi sostanzialmente neutrale sia sul fronte ucraino che ora su quello di Gaza (qui la sinistra italiana, sia di matrice socialcomunista che cattolica, vede oggi riaffiorare antiche radici filopalestinesi e anti-israeliane).
Sarà comunque ora interessante vedere se – pur premuto anzitutto sul fronte interno nell’incertissimo duello-bis con Trump – Biden resterà fermo nella storica garanzia americana a Israele, oppure se assisteremo a una svolta senza precedenti. E se, nel caso, l’impulso si trasmetterà a valle nella Ue, dove la Meloni resta per Washington un riferimento affidabile (certamente più del cancelliere socialdemocratico tedesco Olaf Scholz, erratico sull’Ucraina e impacciato su Israele).
Nel frattempo lo stesso presidente Usa è alle prese anche con uno specifico “caso polizia”, che pure non riguarda in prima battuta l’amministrazione federale (gli “sceriffi”, Oltre Atlantico, sono votati e pagati direttamente da Stati, metropoli e contee). La gestione dell’ordine pubblico è diventata una questione politica nazionale sull’onda del movimento Black Lives Matter, affermatosi nel 2020 dopo l’uccisione di George Floyd, cittadino afro, da parte di un poliziotto (bianco) di Minneapolis, poi condannato per omicidio. È da allora che in tutti gli Usa – soprattutto nelle grandi aree metropolitane amministrate dai “dem” – si susseguono campagne politico-mediatiche contro le forze di polizia, soggette per questo a continui tagli di budget. Gli esiti sono però complessi e controversi.
Un forte e generalizzato aumento della criminalità – soprattutto nelle grandi città delle coste Est e Ovest – è stato inizialmente attribuito all’effetto-Covid, ma non è rientrato ad epidemia conclusa. Una metropoli–simbolo come New York, invece resta in profonda crisi socio-economica principalmente per l’emergenza-crimine: tanto che il sindaco (afro) in carica dal 2022 è un ex capitano del Nypd. Ma neppure lui è riuscito a trovare un punto d’equilibrio fra esigenze di rilancio urbano e pressioni “BLM”. Tanto più che Alvin Bragg – attorney elettivo di Manhattan, afro – sta adottando una linea estremista, che di fatto presume l’abuso razziale per gran parte degli arresti di microcriminali, subito rimessi in libertà (per Bragg non va più perseguito nemmeno chi entra in metropolitana scavalcando i tornelli).
La linea di sostanziale demonizzazione delle forze di polizia e del concetto stesso di “ordine pubblico” (agli antipodi della “tolleranza zero” di Rudolph Giuliani) sta però creando seri contraccolpi sociopolitici: anzitutto perché il boom di criminalità – a New York come a Chicago, come a San Francisco – finisce per colpire di più negli immensi boroughs di periferia, popolati di famiglie e piccoli imprenditori commerciali appartenenti alle minoranze etniche. Storici serbatoi di voti “dem”, ma sempre più scettici quando un sindaco, un governatore, un deputato o senatore, un presidente “dem” diventano ideologi libertari per ossequiare media e università politically correct.
Chissà se Meloni e Biden, oggi nello Studio Ovale, troveranno un minuto per discutere anche della nuova “questione poliziesca”, in Italia e negli Usa.
PS: esemplare del gran disordine sotto il cielo (politico-mediatico) è parsa ieri sera la homepage di uno dei principali quotidiani italiani, negli ultimi giorni in prima linea contro i “manganelli di Meloni”. Un titolo attaccava: “Perché la Meloni non sta con gli studenti?”. Risposta (ipotetica ma con pochi margini di errore): perché “gli studenti” stanno con Hamas e il governo Meloni – giusto o sbagliato, ma coerentemente rispetto alla fiducia di un parlamento democraticamente eletto – sta con lo Stato ebraico, come gli Usa e gli altri Stati Ue membri della Nato. Una risposta che sarebbe stata scontata e approvata da giornalisti vicini al governo di Gerusalemme, come quelli alla guida di quella testata. Era d’altronde chiaramente filo-Netanyahu la scelta evasiva dello stesso news site per il montaggio d’apertura: la morte del 92enne Paolo Taviani, venerato maestro della Cinecittà degli anni d’oro che furono. Però – alla stessa ora – il sito del Washington Post (il giornale “iper-democrat” dell’inchiesta Watergate) aveva l’onestà giornalistica di aprire con questa headline: “Cento uccisi a Gaza; fonti ufficiali: Israele cita tumulti a un lancio di aiuti”. Sul sito italiano – fieramente pro-studenti-pro-Hamas-contro-i-manganelli-di-Meloni – il titolo sui 104 morti di Gaza veniva invece a mezza home solo dopo lancio su Veronica (vedova) Berlusconi e su una (presunta) fake news riguardante i rischi dell’insalata in busta. E il titolo iniziava con “Netanyahu: etc…”. Cioè il premier contro cui marciavano gli studenti pisani. E cui i poliziotti “della Meloni” hanno impedito di assaltare una sinagoga. Provocando l’ira del Quirinale. Nel silenzio della senatrice Segre. Fra gli applausi di quel sito.
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