La pronuncia della Corte Costituzionale sull’autonomia differenziata ha riacceso qualche polemica sul ruolo politico della suprema magistratura del Paese, in una fase di rapporti già arroventati fra i diversi poteri dello Stato.
Lorenza Violini, costituzionalista autorevole, ha esaurientemente spiegato su queste pagine le ragioni tecnico-giuridiche per cui appare ben difficile giungere a conclusioni diverse da quelle espresse dalla Consulta. Ed entro il perimetro analitico del giurista – quello delle norme in vigore (anzitutto la Costituzione) applicate da magistrature legittimate a farlo, a cominciare dalla Consulta – per un non giurista non c’è spazio di discussione possibile.
La prospettiva tende a cambiare spostandosi a cavallo fra diritto e politica, sul terreno della democrazia costituzionale materiale. La questione dell’autonomia differenziata può essere posta in questi termini: l’esito di un referendum popolare regionale con quorum raggiunto e maggioranza schiacciante, successivamente recepito in una legge dello Stato approvata dal Parlamento, sette anni dopo viene sostanzialmente cancellato da una magistratura non elettiva, attraverso l’applicazione insindacabile delle previsioni di una Carta varata 76 anni prima. E l’organismo autore dell'”abrogazione” risulta tuttora composto sulla base del dettato costituzionale originario: che affida al presidente della Repubblica poteri largamente dominanti nella nomina dei giudici costituzionali, facendo leva in maniera importante su magistrature ordinarie e amministrative non elettive e autonome, vigilate in via esclusiva dal Quirinale. Tutto questo a prescindere dal fatto che l’autonomia differenziata sia stata chiesta dai cittadini di una regione come il Veneto, governata dalla Lega, quando al Quirinale sedeva allora e siede oggi uno stesso leader storico del Pd. Una forza che è oggi all’opposizione parlamentare di una maggioranza che ricomprende la Lega.
A rilevare, ancora una volta, non sembra solo il merito in sé della vicenda autonomia quanto piuttosto l’ennesimo caso di un confronto più largo e strutturale in corso: quello che al progetto di riforma-premierato – avanzato dalla maggioranza eletta dal voto del 2022 – oppone i difensori irriducibili della “Costituzione più bella del mondo” (peraltro già più volte modificata). Non vi sarebbero comunque novità meritevoli di riflessioni se l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca non avesse rilanciato anche il dibattito attorno alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Cioè attorno alle architetture costituzionali delle democrazie occidentali (i meccanismi di trasmissione della sovranità popolare e quelli di “check and balance” dei poteri istituzionali).
Al confronto ha subito voluto unirsi dall’Italia un eminente ex giudice costituzionale come Sabino Cassese. In una lettura molto ricca ed equilibrata della svolta-Trump, Cassese ha incluso la raccomandazione agli Usa di abolire la durata a vita per i nove giudici della Corte Suprema di Washington. Nei fatti ha suggerito alla democrazia costituzionale americana (vecchia di 235 anni) di prendere esempio dalla ben più giovane Carta italiana: una cornice nella quale i giudici costituzionali hanno un mandato ordinario di nove anni. Negli Usa, invece, i nove justice sono a vita, tutti di nomina del Presidente in carica, salvo approvazione del Congresso, entrambi eletti a suffragio popolare. Dal 1790 si sono contati solo 17 chief justice e 101 associate justice (i primi furono designati personalmente da George Washington). L’attuale chief justice John Roberts è in carica dal 2005, nominato dal Presidente George W. Bush. Il giudice in carica con maggiore anzianità – Clarence Thomas – è stato designato da George Bush nel 1991.
Aveva 27 anni di servizio la giudice Ruth Bader Ginsburg – espressione dell’ala radicale dei dem – quando è scomparsa in carica nel 2020. Aveva resistito per anni alle pressioni del Presidente dem Barack Obama perché si dimettesse (anche l’Amministrazione Biden ci ha provato senza successo negli ultimi mesi con Sonia Sotomayor, “quota rosa” espressione di una minoranza etnica). L’obiettivo è sempre stato uno solo, squisitamente politico: evitare ciò che si è poi effettivamente realizzato e potrebbe ora realizzarsi ancora. Che Donald Trump eserciti il diritto-dovere costituzionale di nominare un numero elevato di giudici (tre nel suo primo mandato contro una sola nomina successiva nel quadriennio Biden) con effetto di rimpasto partisan giudicato squilibrante per la funzione di garanzia della Corte Suprema.
Secondo gli osservatori critici di area dem-liberal, “Scotus” si sarebbe infatti ritrovata per un periodo con soli tre giudici sicuramente “progressisti” a contrastarne sei ritenuti “conservatori” (tesi per definizione discutibile negli esiti concreti: è stata una pronuncia della Corte tesa a ridimensionare la libertà di aborto a offrire ai dem un argomento politico appetibile nella campagna presidenziale).
La questione centrale ha però certamente riguardato la mancata azione della Corte Suprema in una direzione auspicata dai dem: la neutralizzazione per via giudiziaria Trump dalla gara 2024 per la Casa Bianca. Cosa che – pur nel lungo seguito dell’assalto al Campidoglio del 2021 – non è avvenuta nonostante i dem già nel 2022 abbiano potuto designare una justice di fede progressita come Ketanji Brown Jackson. È stato comunque così che – dopo aver imbracciato inutilmente il bazooka giudiziario contro Trump – la Casa Bianca ha alzato il tiro direttamente sulla Corte Suprema, dipinta come bisognosa di una riforma urgente. Ma anche questa iniziativa si è inceppata, rivelandosi per certi versi un boomerang elettorale per Kamala Harris. È stato infatti molto scoperto il fine dem di manipolare politicamente a fini di potere una questione costituzionale di massimo livello.
Alla querelle, tuttavia, non è mancato un profilo politico-culturale più elevato: quello che ha messo nel mirino, all’interno della Corte Suprema, i giudici cosiddetti “nativisti”. Sono etichettati come tali i tre nominati da Trump-1 (soprattutto la cattolica Amy Coney Barrett, subentrata all’israelita Bader Ginsburg): i quali sarebbero impegnati a declinare nuovamente all’interno della più alta magistratura americana una corrente di pensiero antica quanto gli Stati Uniti. Da un lato – pur all’indomani di secolari ondate migratorie – gli americani “veri” sarebbero i bianchi anglofoni: un approccio certamente riscontrabile nel suprematismo bianco presente nel trumpismo (peraltro premiato dal voto). In un ambito più propriamente tratteggiabile attorno alla Corte di Washington il nativismo suggerisce una lettura programmaticamente “originaria” della Carta statunitense entrata in vigore nel 1789. I giuristi “nativisti” premono cioè per un’applicazione sempre il più possibile aderente alla lettera e allo spirito dei Padri costituenti: senza programmatiche interpretazioni evolutive, giudicate spesso in concreto “cancellative” di prescrizioni considerate invece “autentiche”.
È un approccio per definizione conservatore, che non sorprende affatto ritrovare nei justice di nomina trumpiana. Né stupisce che i dem di Oltre Atlantico alzino la voce a favore di un’ispirazione sempre “progressiva” dei giudizi della Corte Suprema: e giungano a sollecitare oggi anche il cambiamento delle sue regole strutturali. È d’altronde un fatto che – almeno per il prossimo biennio – Casa Bianca, Camera e Senato saranno – pur democraticamente – appannaggio dei repubblicani trumpiani, mentre nella Corte Suprema rimarrà una forma di presidio da parte dei tre giudici nominati in precedenza dal presidente ora rieletto.
Nell’Italia che nel 2024 traguarda gli Usa, la situazione appare diversa. Sul versante politico-istituzionale, una maggioranza di destra-centro eletta nel 2022 governa in una Repubblica parlamentare; ma si scontra ripetutamente (anche) con una Corte costituzionale i cui 15 membri sono pressoché interamente espressione di un presidente della Repubblica dem, in carica da 10 anni. E non riesce, il Governo Meloni, a nominare neppure un nuovo giudice costituzionale fra i cinque di espressione parlamentare: le norme in vigore prevedono nei fatti una condivisione di fatto con l’opposizione. Altri cinque giudici – sulla base della Carta “nativa” – restano intanto di designazione diretta del Presidente (oggi fra l’altro un ex componente della Consulta) e altri cinque sono nomi indicati dalle magistrature ordinarie e amministrative (tutte autogovernate sotto la vigilanza ultima del Quirinale e alcune in escalation di frizioni con Governo e Parlamento).
In questo quadro non sorprende che siano le forze cosiddette progressiste a difendere l’immutabilità della Carta nel 1948, compreso il format originario della Consulta. Sono invece le forze cosiddette moderate o conservatrici a premere per un riassetto importante dell’architettura costituzionale. Si dicono spinte da una “Costituzione materiale” che da almeno un quarantennio (dall’elezione al Quirinale di Francesco Cossiga) vede la presidenza della Repubblica e quindi la Corte Costituzionale recitare ruoli oggettivamente diversi rispetto ai primi quarant’anni di democrazia costituzionale. In questa visione una ormai lunga Seconda Repubblica avrebbe consolidato al Quirinale e alla Consulta un interventismo di effetto politico che difficilmente sembra poter rientrare nella Carta di una repubblica parlamentare: in cui l’esercizio della sovranità risulta innestato nella dialettica fra Camere e Governo. In breve: a Carta immutata, il Presidente avrebbe assunto profili sempre più caratteristici di una Repubblica presidenzialista (come sono gli Stati Uniti, per di più federali); e la Corte Costituzionale reciterebbe ormai sistematicamente da “camera d’appello” (di correzione e contrasto) per le leggi votate in Parlamento e per i singoli provvedimenti esecutivi del Governo.
Non è affatto escluso che negli Stati Uniti i dem prestino ascolto al consiglio del Professor Cassese e facciano della fine del mandato a vita dei justice una battaglia politica dai banchi dell’opposizione, che si annuncia rifondativa per il progressismo americano. Ma sul piano del diritto comparato, anche l’impasse (costituzionale e politica) della Corte Suprema della più antica e importante democrazia del pianeta sembra riservare più di uno spunto utile per l’impasse costituzionale materiale in Italia. Autonomia differenziata compresa.
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