È notizia recente quella del report dell’Istituto Toniolo (Rapporto Giovani 2024) in cui si parla della natalità e della libera scelta di essere genitori o meno. La ricerca raccoglie un campione di 7.000 donne tra i 18 e i 34 anni: di queste il 21% non vuole figli (cioè 1.470) e il 29% ne è debolmente interessata (2.030). Insieme si arriva a 3.500 persone, cioè esattamente la metà delle intervistate. La restante parte, fatto che non viene riportato nei titoli dei giornali, desidera invece avere un figlio.
Oltre alla questione di dove mettere il 29% debolmente interessato, dato che forse avrebbe più senso spostarlo nel gruppo di chi un desiderio seppur minimo di maternità ce l’ha, già questi primi dati sono allarmanti.
Quello che viene poi riportato dal quotidiano Repubblica, sempre rifacendosi al rapporto, è che “tra le donne nate alla fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, la quota che non ha figli è del 22%. Di questo 22%, circa il 12% è childfree. Ovvero hanno liberamente scelto di non essere madri”.
Al di là della lecita libera scelta, duole constatare come si dia enfasi a un numero molto inferiore di come viene presentato. Se si prendesse lo stesso numero di intervistate (7.000) ai fini di fare un paragone in numeri assoluti che, in questo caso, aiutano a comprendere meglio le dimensioni del fenomeno, si parla di donne senza figli per un totale di 1.540. Di queste 1.540 il 12% è childfree: si tratta di 185 donne. Nonostante queste siano enfatizzate dalla narrazione (non solo del giornale citato), verrebbe da chiedersi quali sono stati i motivi delle restanti 1.355.
Allora la prima questione che si vuole qui riportare è quella di una certa narrazione che certamente non aiuta il dibattito, nella quale non solo si tende a presentare il fenomeno come più grande di quello reale (il 12% del 22%), ma anche a porre la questione della maternità (e della paternità) come subalterna alla realizzazione della persona e della donna in particolare, alla quale, secondo quest’immagine, le è imposto di avere dei bambini da crescere. Una narrazione diversa e più veritiera, che si allontani dal costrutto del self made man e dell’assolutizzazione della libertà della persona (intesa come fare quello che si vuole, slegandola da qualsiasi legame), riconducendo la genitorialità al dono e a una pienezza vocazionale, cioè alla piena realizzazione di sé, potrebbe aiutare: “Forse non siamo al mondo per erigere un monumento a noi stessi, ma per donarci, e la pienezza che cerchiamo sta in questo” (M. Corradi, Avvenire, 2015).
Il problema è ovviamente molto grande e riguarda sia la sfera culturale che quella economica e sociale: come non vedere le difficoltà delle famiglie con figli? L’alternanza famiglia-lavoro, la carenza di servizi, una tassazione che non tiene conto del carico di figli sono solo alcuni degli ostacoli. E, dato più vergognoso, non va dimenticato che avere figli è, in Italia, la seconda causa di povertà.
Tornando infatti all’inizio di questo articolo, si parlava del 50% di donne tra i 18 e i 34 anni (3.500) che vogliono avere figli, alle quali eventualmente aggiungere un ulteriore 29%. La vera domanda qui non è solo quanto sia forte il desiderio di maternità (tema importantissimo), ma anche quanto questo venga sostenuto dal Paese, tramite le politiche fiscali, quelle del lavoro, quelle scolastiche e i servizi.
Secondo un report Istat del 2018 (La salute riproduttiva della donna), 5,5 milioni di donne tra i 18 e i 49 anni hanno rinunciato a essere madre, cioè una donna su due, mentre il 71% delle donne tra i 20 e i 34 anni mirava ad avere almeno due figli. Tradotto, non era possibile realizzare il proprio desiderio di maternità.
Risollevare la natalità non è un’impresa che si può fare da un giorno all’altro e che richiede certamente delle politiche adeguate. Serve però, oltre a evidenziare la gravità dei numeri, che sono un fatto incontestabile, soprattutto riappropriarsi di un linguaggio forse dimenticato, che parla della bellezza della famiglia.
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