Un ministro belga, di cui non è il caso di ricordare il nome, dice che le donne italiane e marocchine sono un cattivo esempio. Legate a tradizioni antiche, legate a un’istituzione evidentemente inutile o dannosa come la famiglia, non lavorano, e allargano la platea delle donne che non lavorano.
Dove la frase, e purtroppo il pensiero, esprimono retropensieri pesanti. In primis razzismo: è chiaro che al tal ministro gli stranieri non piacciono. Secondo, sente il suo popolo, la sua supposta “cultura” nordica, superiore, ed è un vizietto che ha creato qualche guaio storico all’Europa. Terzo, considera le donne comunque “diverse”, proprio quando sembrerebbe difendere il loro diritto al lavoro. Categorie, da proteggere, al più.
Insomma, un ministro da far tacere, e cui togliere responsabilità importanti, che un po’ di diplomazia dovrebbe almeno essere insegnata, a chi rappresenta le istituzioni.
Purtroppo temo abbia rappresentato un ragionamento comune, e spero che qualcuno lo tenga presente quando si accusano gli italiani di essere razzisti e poco inclusivi. Pare brutto ricordare Marcinelle, ma insomma, in Belgio gli italiani non sono mai piaciuti, maschi e femmine. Poi qualcuno spiegherà al predetto ministro che una famiglia è una risorsa, non un problema. In qualche remoto ricordo d’infanzia gli auguriamo di ripescare una carezza, uno sguardo di tenerezza e calore umano.
Poi giova rimembrare che se le donne non lavorano magari è perché non sono messe in condizioni di lavorare, asili, permessi, rispetto, assegni familiari eccetera. E stupisce che un Paese tanto progressista ed evoluto come il suo sia caduto in fallo sul welfare, se davvero troppe donne non sono supportate, e costrette quindi a non lavorare. Credevamo fossero più bravi di noi.
Ancora una nota: italiani e marocchini non sono un’indistinta massa di esseri mediterranei. Appartengono a continenti diversi, hanno storie, cultura, religione diverse. Già additare un popolo intero di colpe presunte è vergognoso, mescolarne due senza criterio è peggio. Ma forse si tratta soltanto di stupidità, e del peccato comune di dar fiato alla voce senza criterio. Uno sport, un’abitudine, ahimè, cui siamo avvezzi anche qui, in Italia. Nella politica, nei media. Ogni riferimento agli attacchi vergognosi a un papa santo non è casuale.
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