Sul green pass l’Italia è spaccata in due: solo per poco più della metà degli italiani (56%) il certificato verde è una misura efficace contro i contagi e soltanto il 52% pensa che sia giusto vietare l’accesso ai luoghi di lavoro a chi non sia in possesso di questo documento. A rivelarlo è un’indagine realizzata da EngageMinds Hub, centro di ricerca dell’Università Cattolica di Cremona, che già a fine febbraio 2020 ha attivato un monitor costante su atteggiamenti e comportamenti della popolazione italiana su molti aspetti di questa lunga e complessa fase di crisi legata al Covid.
La ricerca ha coinvolto un campione di oltre 6mila italiani, rappresentativo della popolazione per sesso, età, appartenenza geografica e occupazione. E dalle interviste emerge una crescente sfiducia degli italiani verso la scienza (35%), il servizio sanitario (49%) e le istituzioni (69%). Come vedono gli italiani il green pass? Come è cambiato il loro giudizio verso i vaccini? E come la pandemia ha inciso su comportamenti e atteggiamenti? Ne abbiamo parlato con Guendalina Graffigna, professore ordinario di Psicologia dei consumi e della salute presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza e direttore del centro di ricerca EngageMinds Hub.
Sul green pass l’Italia è spaccata in due: non convince in sé o il suo utilizzo? Cosa non piace?
C’è un 20% di italiani già vaccinati che esprime un non pieno consenso per il green pass. Ciò dimostra che non per tutti è visto come una misura preventiva e a favore della campagna vaccinale.
Chi sono i più scettici?
I giovani, perché vedono il green pass come una lesione alla loro libertà. Davanti al green pass entrano in gioco tutta una serie di fattori non solo socio-demografici, ma anche psicologici, che portano le persone ad attribuire un valore diverso a questo strumento.
Nella diversità di giudizio più che il livello d’istruzione incide il reddito. Perché i benestanti lo promuovono e i ceti medio-bassi no?
Le persone in situazione economica un po’ più compromessa sono coloro che hanno sofferto di più in questi mesi di lockdown e restrizioni varie. Arrivano all’obbligo del green pass dopo mesi di fatiche e di forti frustrazioni, il che accentua la preoccupazione sulle ricadute economiche e lavorative di questa misura. La spaccatura in base ai redditi riflette le profonde differenze psicologiche del vissuto delle persone.
Questo spiega perché gli “affaticati” giudichino il green pass una misura poco utile a ridurre i contagi?
Chi da un punto di vista economico o anche solo puramente psicologico per le ricadute che la pandemia, il distanziamento sociale e la rivoluzione delle proprie routine quotidiane ha prodotto sulla qualità di vita, oggi si sente sfinito e teme che il green pass si trasformi in un’ulteriore fatica, in un nuovo disagio. La resilienza, cioè la capacità di adattarsi, di trovare la motivazione per ripartire, per alcune fasce della popolazione è ormai al limite. E’ come se dicessero: non abbiamo più risorse per adattarci a questa nuova restrizione.
Un dato sorprendente che emerge dalla vostra ricerca è l’elevata sfiducia, in costante crescita, che gli italiani dimostrano nella scienza (35%), nel servizio sanitario (49%) e nelle istituzioni (69%). Retaggi di un anno e mezzo di pandemia e di una comunicazione martellante e ansiogena sul Covid?
La non fiducia nei confronti della scienza, del sistema sanitario e delle istituzioni è un problema annoso e non riguarda solo l’Italia, ma tutti i paesi occidentali. Il Covid ha sicuramente rappresentato una sorta di stress test di questo atteggiamento. A marzo 2020, a inizio pandemia, la sfiducia nella scienza riguardava il 22% degli italiani, oggi siamo al 35%.
Come se lo spiega?
All’inizio le persone hanno riposto delle aspettative un po’ illusorie sulla possibilità della scienza di dare una risposta risolutiva al Covid.
Perché illusorie?
Non perché la scienza non riesca a dare risposte efficaci, ma semplicemente perché queste aspettative si fondavano su una non piena comprensione di quel che è un processo scientifico, che necessita di tempo, di fatica, di prove, di errori, di ipotesi talvolta non confermate. Oltre all’aspettativa irrealistica, occorre considerare la scarsa alfabetizzazione degli italiani verso il metodo e il processo scientifico. Il tutto veicolato da una comunicazione scoordinata e tendente alla spettacolarizzazione della scienza e degli scienziati. Risultato: la sfiducia e la frustrazione sono costantemente salite, tanto che oggi più di un italiano su tre, il 35%, non si fida della scienza. E qui si pone un problema.
Quale?
Il livello di fiducia nella scienza e nel sistema sanitario è uno dei principali predittori sulle misure di prevenzione, vaccini compresi, perché si tratta di scelte che hanno anche un versante psicologico, non solo razionale. Tale scelta implica un affidarsi a ciò che decidono gli scienziati e le istituzioni per la comunità. Da qui nascono critiche e domande cui non sempre è possibile rispondere con una spiegazione unica.
Come è cambiato in questo anno e mezzo l’atteggiamento degli italiani verso i vaccini e la campagna vaccinale?
Nel maggio 2020, quando i vaccini ancora non c’erano, avevamo già previsto che ci sarebbe stata una sacca consistente di persone preoccupate. All’epoca erano circa il 40%, divisi tra uno zoccolo duro del 10% di assoluti contrari e un 30% di esitanti, che volevano essere rassicurati.
E oggi?
Nel tempo la quota dei contrari irriducibili, difficili da convincere anche con il green pass, è rimasta costante, attualmente al 9%. Sono persone contrarie ai vaccini in genere ma anche alle innovazioni nei sistemi sanitari.
Gli esitanti invece?
Si sono via via assottigliati fino al 12% circa. Su queste persone il green pass può indurre un cambio di atteggiamento verso la vaccinazione. Ma non è detto che il certificato vaccinale cambi in profondità le motivazioni.
Cosa intende dire?
Il green pass cambia pragmaticamente solo i comportamenti: se una persona vuole lavorare, deve vaccinarsi. Il vero problema è fare un investimento di lungo termine sull’educazione delle persone per attivare le cosiddette motivazioni intrinseche, cioè quelle motivazioni indipendenti dal fatto che ci sia un obbligo amministrativo a imporle. Altrimenti il problema si ripresenterà in caso di terze dosi o di altri vaccini che prima o poi dovremo farci.
Dal 2020 a oggi come è cambiata la percezione della pandemia e come sono cambiati atteggiamenti e comportamenti degli italiani?
Oggi ci rendiamo maggiormente conto del fatto che ogni singolo micro comportamento, come lavarsi le mani o stare un po’ distanti, abbia un valore molto importante per la salute nostra e di chi ci sta attorno. E’ un apprendimento acquisito. Dall’altra parte, però, è diminuito il senso di auto-efficacia nel promuovere la propria salute. C’è un fatalismo più diffuso, come un senso di stanchezza, dovuto al lungo stato di incertezza e ai continui cambiamenti anche rispetto alle misure preventive. E’ un campanello d’allarme.
Lei si occupa di psicologia del quotidiano. A questo livello come ha inciso la pandemia?
La psicologia del quotidiano, che non è necessariamente legata alla patologia mentale o alla cura di disturbi psicologici, è quella che regola le nostre scelte e aiuta a cambiare i nostri comportamenti. E qui la pandemia ci ha fatto capire quanto siamo interconnessi, cambiando le autorappresentazioni di sé e delle conseguenze delle proprie decisioni. E’ una scoperta positiva che andrebbe però coltivata, attraverso campagne educative su come migliorare il proprio approccio alla salute. Rispetto al servizio sanitario dobbiamo sentirci parti attive più che solo utenti finali.
(Marco Biscella)
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