Da stamattina tutta l’Italia è in quarantena. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha firmati ieri sera, dopo l’usuale conferenza stampa, un nuovo decreto che estende a tutto il paese le disposizioni che per un giorno e mezzo hanno riguardato la Lombardia e 14 province. Intanto l’emergenza coronavirus ha superato quota 9mila: 7.985 sono i malati (1.598 in più rispetto a domenica sera), 463 i decessi (+97 in un giorno) e 724 i pazienti guariti (102 in più nelle ultime 24 ore), per un totale, appunto, di 9.172 casi. La velocità dell’epidemia resta elevata, a ritmi ancora esponenziali, tanto che i contagi raddoppiano ogni 2,4 giorni. È come fermare un cavallo in corsa. “Ma il trend – spiega Amedeo Capetti, infettivologo presso l’ospedale Sacco di Milano – purtroppo non ci sorprende”.



A questo punto è possibile prevedere quando verrà raggiunto il picco? Secondo gli epidemiologi, potrebbe avvenire a metà aprile…

Venerdì scorso, quando eravamo ancora sui 4mila casi, qualcuno ci aveva detto che si aspettava nel week end di arrivare a 9mila. Siamo arrivati a quella soglia 24 ore dopo e comunque era difficile immaginare un’esplosione di questa portata.



Come valuta le misure adottate nel week end dal governo?

Ho la sensazione che le misure di contenimento siano estremamente faticose e penalizzanti. Ma noi non siamo in Cina, dove questi interventi vengono imposti con il terrore e l’uso della forza. Da noi sono proposte, ma non imposte, e da quel che vedo in giro non mi sembra che si stia osservando veramente una quarantena. I più volenterosi stanno tutt’al più abbozzando qualcosa di simile, ma non è detto che basti a fermare la velocità il contagio.

Dove nascono le sue perplessità?

Le misure macro, drastiche, adottate hanno sicuramente la loro utilità, ma se non sono accompagnate da una responsabilità personale rischiano solo di ritardare, e non frenare, l’epidemia. E in un frangente in cui la ricerca non è in vista di un antidoto efficace, anche perché i suoi tempi sono molto più lunghi di quanto sarebbe necessario oggi, solo ritardare un po’ l’epidemia ha una scarsa utilità.



Secondo il professor Silvio Brusaferro dell’Iss, le misure adottate 15 giorni fa nella zona rossa hanno dato risultati, ma in altre zone si sono verificati aumenti dei casi. Come mai?

Innanzitutto, è probabile che il virus fosse già fuoruscito dalle zone rosse prima. In secondo luogo, può essere che delle persone paucisintomatiche, cioè con poca febbre e una tosse lieve, non siano andate, per paura o perché giovani, a fare il tampone e hanno forse seminato il virus altrove già prima che a Codogno venissero imposte le restrizioni da zona rossa. Teniamo presente, poi, che in inverno ci sono tante altre forme influenzali che si possono sovrapporre.

Cosa dovrebbe fare chi presentasse sintomi lievi di influenza?

Il consiglio è prendere l’antibiotico e mettersi in quarantena, non solo per vedere se fa effetto, ma soprattutto per evitare contatti con altre persone. Ho invece l’impressione che la misura stessa della quarantena, pur con tutta la sua intelligenza e scomodità, non sia rispettata fino in fondo.

Ci sono sintomi che rivelano la positività al virus?

Qui sta il problema. Il Covid-19 è molto infido, i suoi sintomi sono assolutamente aspecifici. Quando un soggetto ha febbre e tosse la situazione, se è positivo al coronavirus, può essere già avviata. Altri soggetti, invece, hanno febbre e spossatezza, che sono sintomi tipici di ogni influenza e che spesso dipendono anche da fattori psicologici.

Chi è positivo è destinato prima o poi ad ammalarsi?

Tendenzialmente no. Di questo coronavirus sappiamo purtroppo ancora troppo poco, non è facile la valutazione della sua carica infettante. Nel caso, per esempio, dell’epatite B è chiarissimo che quanti più virus ci sono nel sangue, tanto più la situazione è critica.

E nel caso del Covid-19?

Possiamo soltanto sapere se un tampone è positivo o negativo. Sappiamo che per fasce d’età c’è una maggiore predisposizione al rischio nelle persone anziane, mentre un soggetto giovane si ammala per lo più senza sintomi. Ecco perché una delle prime preoccupazioni è far capire al più presto ai giovani che quella che per loro è solo un’influenza, per i loro genitori o per i loro nonni potrebbe essere qualcosa di letale.

A proposito di giovani e di movida, c’è il rischio che questi comportamenti possano portare a una forte diffusione dell’epidemia a Milano, città che finora vede un numero di contagi in aumento sì, ma non troppo? Isolare Milano è un imperativo?

È assolutamente una priorità e nel decreto non ce n’è traccia, visto che, per esempio, non sono bloccati gli aeroporti e ci sono alcuni buchi nelle misure di contenzione. Siamo tutti molto preoccupati dell’abolizione delle zone rosse, perché se il virus dovesse riversarsi su Milano – e a tal proposito per scongiurare questa eventualità bisogna fare un appello pressante alla responsabilità di tutti – farebbe da detonatore potentissimo, non solo in Italia, ma in tutto il mondo, per mille motivi.

Il virologo Roberto Burioni alla domanda “qualcuno è morto di Coronavirus?”, ha risposto: “Tutti sono morti per il coronavirus”. Come vanno interpretate le sue parole?

Premesso che tra i deceduti per coronavirus ce ne sono alcuni che sono arrivati a prendere il Covid-19 in fase terminale, con aspettativa di vita di poche settimane, i problemi sono diversi. Ci sono persone con più comorbilità che potrebbero andare avanti ancora per molti anni, ma con il sopraggiungere del Covid-19 balza agli occhi che il parametro più frequente sono le difficoltà respiratorie. Questo ci dice che sono persone che cercano di espandere i loro polmoni, diventati di gesso, imponendo al proprio organismo uno sforzo, come se dovessero correre sempre in salita. Chiaro che dopo un po’ si sfiancano, non ce la fanno più a respirare. Potremmo dire che questi muoiono di coronavirus. Ma c’è un aspetto ancora più drammatico e che non entrerà mai nella contabilità dei decessi per il coronavirus.

Si riferisce a quanto ha dichiarato un medico, secondo cui oggi negli ospedali si è costretti a scegliere chi curare e chi no, a decidere chi salvare, come in guerra?

Non solo questo. E mi spiego citando un caso personale. Sono stato chiamato da un importante ospedale cardiologico di Milano per un paziente colpito da un infarto molto esteso, ma con febbre e tosse tali da far temere che fosse contagiato dal coronavirus. Mi hanno detto: ti mandiamo il tampone, perché noi non abbiamo la certezza che sia negativo e non possiamo portarlo in sala operatoria per rivascolarizzarlo, evitando così che l’infarto si mangi tutto il cuore. Il problema è che oggi, vista l’emergenza, i tempi di risposta per verificare un tampone sono lunghi. Questo significa che ci saranno un bel po’ di persone che rischieranno la vita non per il coronavirus, ma per l’handicap che le strutture sanitarie sono oggi fagocitate da questa emergenza.

Può essere una soluzione aprire le caserme per ricoverare i malati di coronavirus?

Fino a qualche giorno fa ero molto arrabbiato, perché non lo si era ancora deciso e attuato. Guardando però quel che succede nei reparti di rianimazione o di terapia intensiva, mi rendo conto che non è molto realistico, perché la maggior parte dei pazienti in breve tempo arriva ad aver bisogno di ossigenoterapia ad alti dosaggi e di apparecchiature sofisticate. E credo che tutto questo in una caserma non si possa fare.

Intanto le strutture sanitarie sono sotto stress. Quanto è pesante oggi la situazione negli ospedali?

Io non opero in questi reparti direttamente, ma ogni giorno vengo a contatto con medici e infermieri. Stanno effettivamente entrando in una fase molto critica. Innanzitutto, sono i più esposti da un punto di vista medico al rischio di vaporizzazione del virus, perché a contatto con pazienti a elevata carica virale. Tanto di cappello, dunque, a questi rianimatori, che ogni giorno di più vedo stanchi e preoccupati. In secondo luogo, lottano costantemente contro il tempo perché, a differenza di altre malattie virali, il decorso del Covid-19 è molto più lento: ci vogliono 2-3 settimane, se non di più, per guarire, oltre tutto con una situazione polmonare compromessa e dove non sempre l’intubazione funziona.

Il ministro Speranza ha dichiarato: “lo sforzo del governo non sarà sufficiente senza l’impegno di ogni singolo cittadino a rispettare le raccomandazioni che abbiamo diffuso. È questa la cosa più importante per vincere la sfida”. La prevenzione è regola di tutti. Oltre alle regole che ci sono state ricordate in questi giorni, è utile aggiungere ulteriori suggerimenti e raccomandazioni?

Già il decreto aggiunge, oltre a lavarsi frequentemente le mani e a mantenere la distanza di almeno un metro tra le persone, una lunga serie di nuove precauzioni e restrizioni che è giusto osservare. Ma io vorrei aggiungerne una rivolta esplicitamente ai giovani, che in gran parte sono asintomatici al Covid-19. Siccome a volte la febbre non viene percepita, il mio consiglio è: se volete incontravi con gli amici, e mai più di 5-6 al massimo, prima di uscire ciascuno si misuri la febbre. E se la temperatura è superiore a 37,5, meglio stare a casa ed evitare ogni contatto esterno.

(Marco Biscella)

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