Rapiti in Niger, liberati nel Mali. È la (felice) conclusione del rapimento avvenuto nel 2018 di padre Pier Luigi Maccalli e di Nicola Chiacchio, a opera di gruppi jihadisti che imperversano nella zona cosiddetta del Sahel, l’Africa occidentale. Di loro si sapeva ben poco, se non grazie a un breve filmato che li riprendeva ancora vivi in abiti islamici. Padre Maccalli, originario della diocesi di Crema, già missionario in Costa d’Avorio per diversi anni, fa parte della Missione cattolica dei Padri Sma. La sua liberazione e quella dell’altro italiano presenta ovviamente ancora punti oscuri, ma è interessante notare che proprio alcuni mesi fa il presidente del Mali aveva dichiarato ufficialmente di voler aprire un dialogo con i gruppi terroristi che insanguinano il suo paese. Ce lo ha spiegato Marco Di Liddo, analista del Centro Studi Internazionali: “A condurre il dialogo con i terroristi non è stato il governo del Mali, ma il capo dell’opposizione islamista Mahmoud Dicko, che gode di grande influenza su entrambe le parti, quella fondamentalista e quella governativa. Non è un caso che proprio alcuni giorni fa il governo abbia liberato cento sospetti jihadisti che si trovavano in carcere”. Il ruolo invece dell’Italia in un quadro geopolitico così lontano da noi e che prospettive ci sono per i 18 pescatori ancora imprigionati in Libia, lo spiega in questa intervista.



Dal Niger al Mali: significa che la zona del Sahel è ormai in mano a un unico gruppo islamista che fa quello che vuole?

Solo noi vediamo i confini. Per loro non esistono Mali e Niger, paesi che abbiamo creato noi a tavolino. Non sanno neanche dove finisce uno e dove cominci l’altro. Gruppi jihadisti sono attivi su tutto il territorio del Sahel occidentale, che va dal sud della Libia al nord della Nigeria.



Si tratta di un’unica organizzazione?

Non c’è distinzione politica, c’è una federazione di gruppi jihadisti riuniti sotto l’ombrello del Gruppo per la salvezza dell’Islam, un contenitore dove si trovano al Qaeda, Isis e altre organizzazioni fondamentaliste. Che poi a loro volta  sono collegate con i gruppi dell’insorgenza etnica, come i pastori fulani ben noti per la loro attività in Nigeria.

Pochi mesi fa il presidente del Mali, Ibrahim Boubacar Keïta, ha annunciato di voler aprire un dialogo con i gruppi jihadisti che dal 2013 insanguinano il Paese. C’entra qualcosa con la liberazione dei due italiani?



Assolutamente sì, anche se dietro alla liberazione c’è una trattativa condotta non dal governo, ma probabilmente dal capo dell’opposizione islamista Mahmoud Dicko, un imam che è un capo conservatore e ideologico molto influente. La trattativa tra governo e terroristi  è una sua idea. Ha i contatti con i gruppi jihadisti e ha l’autorità religiosa per essere ascoltato da entrambe le parti.

Quindi esiste una possibilità di trattare con i gruppi fondamentalisti?

Certo, non è un caso che la liberazione sia avvenuta pochissimo tempo dopo la scarcerazione di cento sospetti terroristi. È evidente che c’è stato uno scambio.

E il nostro governo? Quanto conta l’Italia, la cui politica estera è sempre più incerta, in un quadro dominato dai francesi?

Non è esatto. Anche l’Italia ha una rilevanza in questo scenario: non abbiamo la tradizione francese di potenza coloniale che ancora investe risorse in Mali, ma non siamo esclusi. Conosciamo il teatro libico, che è una finestra su quello che accade in Mali, e da qualche anno siamo anche in Niger, che stiamo iniziando a conoscere. Sono presenti cooperanti e militari coordinati dall’Unione Europea. Il nostro paese ha molto da dire, il Sahel è decisivo per il contrasto al terrorismo e al traffico degli esseri umani.

A questo proposito, che idea si è fatto del caso che vede 18 nostri pescatori ancora imprigionati in Libia? Come pensa possa risolversi il caso?

Episodi analoghi c’erano già stati in passato tra Italia, Tunisia e Libia, dovuti a un limite delle acque territoriali molto labile. Quello che preoccupa è che i pescatori italiani sono in mano ad autorità di un paese alle prese con una guerra civile, che ha un regime di detenzione terrificante. C’è il rischio che utilizzino il caso come arma propagandistica, sia in chiave interna che a livello internazionale. Il fatto che la Libia sia teatro di interessi di tanti paesi, soprattutto Russia e Turchia, li fa sentire un po’ più forti, facendo passare in secondo piano il ruolo italiano.

Ma esiste un ruolo italiano in Libia?

I libici non possono arrivare a una stabilizzazione senza l’aiuto diplomatico, economico e politico italiano. Certo, dobbiamo essere consapevoli che la situazione degli italiani fermati non è semplice.

(Paolo Vites)