Non è per fare facile polemica, ma ItsArt, la nuova piattaforma pubblica nata da qualche giorno e dedicata alla diffusione e alla promozione della cultura nazionale, è davvero una soluzione inutile quanto costosa.

Com’è già accaduto in piena pandemia per lo smart working e la Dad, l’uso della tecnologia virtuale è sembrata a molti durante il lungo lockdown una risposta eccezionale per la fruizione a distanza di qualsiasi cosa. Il salto tecnologico che ha coinvolto in poche settimane milioni di persone non ha riguardato solo il tema, pur rilevante, della infrastruttura tecnologica per la connessione veloce (che tutto sommato meriterebbe una menzione per come ha retto alla prova, sicuramente molto meglio di come andrà alle nostre autostrade o ferrovie alla prova del prossimo esodo estivo) e per il numero di device presenti in ogni famiglia. E non solo ha aperto un squarcio interessante sulla qualità delle produzioni, ma anche su come partecipare a una riunione in videochiamata, su come tenere una lezione e mantenere alta l’attenzione dei partecipanti in una classe.



È in questo quadro straordinario che deve essere venuto in mente al ministro Franceschini di lanciare l’idea di una piattaforma di contenuti culturali a pagamento. L’ha chiamata, con il solito usuale provincialismo italiano, la “Netflix della cultura” e ha fatto investire a Cassa depositi e prestiti ben 10 milioni di euro. Dopo una rapida (e sembra poco partecipata) selezione, la scelta del partner privato è caduta su “Chili”, la piattaforma di contenuti multimediali fondata 8 anni fa da Stefano Parisi. ItsArt ne ha così preso in uso la piattaforma e ne ha conservato anche tutti i suoi difetti. Chili è infatti un distributore (potremmo chiamarlo semplicemente uno “scaffale”) da cui prelevare a pagamento film e altri prodotti. Sopraffatta dalla presenza delle grandi piattaforme globali, Chili ha consumato, tra bilanci in perdita e scarsa qualità e quantità dei contenuti disponibili, la propria missione originaria e si è quindi ben volentieri riciclata come piattaforma semi-pubblica per i prodotti culturali di casa nostra.



A ciò dobbiamo aggiungere che ItsArt non produce nulla e si limita a distribuire prodotti realizzati da altri, che se ne devono assumere l’intero rischio imprenditoriale. Il catalogo – davvero assai scarno – è offerto a prezzi elevati, in alcuni casi più alti di altre distributori.

Quello che davvero non si capisce è perché il progetto ha subito visto l’esclusione della Rai. RaiPlay, la piattaforma digitale della tv di stato – dopo un inizio davvero difficile – oggi è uno strumento assai ben posizionato e a cui non avrebbe fatto male ricevere in dote dallo Stato una missione di questo tipo. Del resto è arrivato anche per RaiPlay il momento di far pagare alcuni contenuti e l’accesso a prodotti non legati direttamente al servizio pubblico.



Ci troviamo quindi di fronte all’ennesima dimostrazione di quanto sia incompresa dai nostri governanti – colpa dell’età ma anche per un approccio culturale sbagliato – la trasformazione digitale.

Il punto centrale è la produzione dei contenuti e non la loro distribuzione. Il punto da cui partire è la promozione di idee non la trasposizione del vecchio ai nuovi strumenti. Insomma, per usare un concetto concreto, se un convegno era “palloso” e inutile prima, lo sarà anche dopo, nonostante lo si chiami “webinar”.

La questione ” politica” ritorna a essere – anche in questo caso – l’incidenza del pubblico in ambiti che non gli sono propri. Questa vicenda di ItsArt fa il paio con le risorse enormi di cui dispongono le “film commission” regionali, e di cui sappiamo poco o nulla (in Lombardia in realtà abbiamo saputo molto), con le lottizzazioni degli appalti in Rai, con il sistema dei premi assegnati agli amici degli amici, con il ristretto numero di attori e attrici che fanno praticamente tutto, con la nomina di curatori e presidenti di enti preposti alle rassegne e ai cartelloni più importanti.

Esiste per la cultura un “caso Italia”? Credo di sì e converrebbe incominciare a discuterlo più esplicitamente. Valga ad esempio il caso di queste ore che coinvolge Scurati e De Luca e la fondazione Ravello. Dopo vari tentativi, tutti falliti, di garantire una direzione autorevole per uno dei più importanti Festival italiani, la scelta come presidente di Antonio Scurati sembrava il solito insperato lieto fine. Ma è bastato scorrere la lista degli eventi da lui proposta per mandare su tutte le furie il governatore campano, che alla lettura dei nomi di Saviano e del ministro Speranza nel cartellone del Festival non ha retto e ha annullato ad horas la conferenza stampa di presentazione del nuovo presidente.

L’unica consolazione è che l’invasione di campo della politica nel complesso e delicato mondo della cultura non potrà comunque fare danni maggiori di questi, tanto più che ciascuno di noi rimarrà libero di scegliere la piattaforma a cui abbonarsi e cosa guardare seduto sul proprio divano, in santa pace.

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