Sull’onda dei successi sportivi acquisiti dagli atleti di colore e del fabbisogno delle forze politiche di marcare la propria identità, il tema della riforma dei criteri della cittadinanza italiana per gli stranieri in Italia ritorna nel dibattito politico per l’obiettivo di favorire il rilascio automatico del diritto di accesso per i minori nati in Italia (ius soli). L’ultima versione, rilanciata da Forza Italia, rimette in campo lo schema del disegno di legge approvato circa due anni fa da un ramo del Parlamento che vincola l’accesso alla cittadinanza alla frequentazione di almeno un ciclo della scuola dell’obbligo, estendibile anche ai minori nati nei Paesi di origine e ricongiunti alle famiglie straniere residenti in Italia (ius scholae).
Alcuni degli argomenti utilizzati per sostenere la riforma, in particolare l’esigenza di rimediare alcune presunte discriminazioni esistenti rispetto ai minori italiani, ovvero l’impossibilità di accedere alla cittadinanza italiana prima del compimento dei 18 anni, sono giuridicamente infondati. I diritti dei minori stranieri in Italia sono del tutto assimilati a quelli dei coetanei italiani. Il 38% del 1,7 milioni di nuove cittadinanze rilasciate tra il 2013 e il 2023 riguarda minori stranieri che hanno ottenuto il riconoscimento adeguato della maturazione del diritto da parte di un genitore. Tra questi, per inciso, sono compresi anche una parte significativa degli atleti che onorano il nostro Paese nelle competizioni internazionali. La quota delle cittadinanze rilasciate agli ex minori stranieri sulla base delle domande inoltrate dopo il compimento dei 18 anni risulta del tutto marginale. L’aumento del numero delle cittadinanze è un fenomeno recente in relazione alla maturazione dei requisiti da parte degli stranieri accolti in Italia nella prima parte degli anni 2000. Nell’ultimo decennio il nostro Paese detiene il primato tra quelle rilasciate tra quelli aderenti alla UE (circa il 21% del totale).
Tuttavia il numero potenziale dei minori stranieri che potrebbero acquisire la cittadinanza sulla base della legge vigente (a partire dai 10 anni di residenza del genitore e dal requisito di reddito minimo) risulta di gran lunga superiore a quelli che l’hanno ottenuta, per la rinuncia a inoltrare le domande da parte di una quota significativa di adulti che hanno maturato i requisiti.
I motivi delle rinunce meriterebbero un’analisi approfondita, se non altro perché l’eventuale richiesta della cittadinanza del minore nato in Italia, o ricongiunto in tempi successivi, anche nelle ipotesi di riforma rimane condizionata dalla volontà di un genitore di inoltrare la domanda per conto del figlio.
Una delle motivazioni è l’impossibilità di mantenere la cittadinanza del Paese di origine, con complicazioni di diversa natura in termini di identità culturale e di adempimenti burocratici per gestire le relazioni con le parentele e il territorio di origine. Circa 40 Paesi delle comunità di origine presenti in Italia non accettano la doppia cittadinanza.
Un’indagine effettuata dall’Istat sulla percezione della cittadinanza italiana da parte dei minori stranieri riflette gli orientamenti delle famiglie. Circa il 60% dei minori interpellati la ritiene importante per il proprio futuro. Tale percentuale aumenta in modo significativo per le tre comunità d’origine (Albania, Marocco, Romania) che da sole rappresentano il 40% delle domande accolte, ma si riduce in modo rilevante per alcune comunità asiatiche, a partire da quella cinese, e di alcune africane.
Circa un quarto dei minori stranieri residenti in Italia e degli 870mila che frequentano le scuole italiane, provengono da Paesi della UE. Una condizione che consente il pieno accesso ai diritti della libera circolazione e di accesso a tutte le prestazioni sociali da parte delle persone e delle famiglie.
Non devono essere sottovalutate le criticità culturali, economiche e sociali che generano barriere sostanziali all’accesso della cittadinanza. Ad esempio le condizioni di povertà assoluta di 1,7 milioni di persone di origine straniera, tra i quali circa 600mila minori, e i tassi di dispersione scolastica, relativi alla mancata partecipazione ai corsi o ai forti ritardi educativi, che riguardano il 25% dei minori stranieri rispetto all’8% di quelli italiani.
L’insieme delle criticità descritte rendono assai improbabile l’ottenimento dell’obiettivo ventilato dai proponenti della riforma “ius scholae” (300mila nuovi cittadini italiani nella fase di prima attuazione e oltre 500mila nei primi 5 anni).
L’analisi del fenomeno e delle criticità consente di mettere in ordine le idee sul tema in oggetto.
La contrapposizione tra i sostenitori dello ius soli e dello ius sanguinis non ha molto senso. Per definizione, l’ottenimento della cittadinanza italiana per gli stranieri provenienti da altri Paesi avviene sulla base di requisiti (residenza, reddito, comportamento civile) diversi da quelli dell’appartenenza di sangue. I criteri previsti dalla legge italiana, seppur migliorabili, non sono molto diversi da quelli utilizzati da altri grandi Paesi europei. Le comparazioni internazionali, in particolare quelle con i Paesi del continente americano, che riconoscono la cittadinanza in relazione alla nascita nel territorio (ius soli puro), non hanno alcun senso. Sono leggi motivate dal fatto che queste nazioni sono state formate da colonizzatori e migranti provenienti dal continente europeo, non dalle popolazioni autoctone.
Facilitare l’accesso alla cittadinanza italiana per i minori, a prescindere dal percorso dei genitori, può essere allettante dal punto di vista comunicativo e psicologico, ma risulta discutibile su quello pratico. La responsabilità genitoriale non può, e a mio modesto avviso non deve, essere ridimensionata. Una buona proposta di riforma della legge n. 91 a distanza di 32 anni dalla sua approvazione dovrebbe semmai prendere in considerazione i requisiti di partecipazione per l’obbligo scolastico da parte dei figli, per ridurre gli anni di residenza necessari per l’inoltro delle domande per il nucleo familiare.
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