I discorsi di Mario Draghi, il Rapporto Letta, gli interventi di Fabio Panetta, il dissenso trasversale al Parlamento europeo sul Patto di stabilità riformato. Poche volte è venuta dall’Italia un’insoddisfazione così aperta e diffusa sullo stato dell’Unione europea. Sono voci diverse, per autorevolezza e per contenuti, sono linee diverse, non si possono mettere tutti i dissensi in un solo paniere. C’è chi come Draghi e Letta spinge per una svolta in senso federalista, più unione nell’Unione, in tutti i campi dal mercato alla difesa. C’è chi come il Governatore della Banca d’Italia cerca di spingere la Banca centrale europea ad abbandonare il suo attendismo prima che sia troppo tardi, prima cioè che la stretta monetaria produca una recessione. C’è chi, all’opposto, vorrebbe meno vincoli da Bruxelles e una maggiore libertà di manovra per le politiche dei singoli Governi. E c’è chi ha scaricato sul no o sull’astensione di fronte alle nuove regole fiscali i propri desideri di rivincita, beghe interne di partito, rancori repressi o calcoli di piccolo cabotaggio. Colpisce come la destra abbia messo in difficoltà Giancarlo Giorgetti (e la Lega più di tutti) o come Elly Schlein che stava lì lì per votare no abbia delegittimato Paolo Gentiloni, il Commissario europeo che si è speso per la riforma del Patto, e che molti danno già per prossimo Segretario del Pd, vista l’insoddisfazione diffusa verso la segreteria attuale.



Tutto questo ribolle nel calderone, ma sarebbe un errore se a Bruxelles, a Berlino o a Parigi scattasse una sorta di reazione pavloviana contro l’eterna confusione politica italiana, i machiavellismi, l’indisciplina e quant’altro. Perché quello che sta emergendo in modo confuso e contraddittorio è un malessere reale.



È vero, i conti pubblici sono un disastro. Colpa del Superbonus 110%, certo, di chi lo ha inventato e introdotto (il Governo guidato da Giuseppe Conte nel maggio 2020), ma anche di chi lo ha approvato e prorogato, cioè i Governi successivi compreso quello guidato da Draghi e di chi non lo ha bloccato per tempo, cioè il Governo attuale guidato da Giorgia Meloni che adesso starebbe escogitando altri rinvii spalmando i crediti negli anni futuri. Dunque nessuno può scagliare la prima pietra. Anche perché il bilancio pubblico non sarebbe in ordine nemmeno senza il mostro. A forza di spacciare per “debito buono” il pessimo debito d’antan, corriamo dritti dritti verso i tremila miliardi di euro.



Ora il Governo non sa che pesci pigliare. Un retroscena pubblicato ieri dal Corriere della Sera registra l’umore nero che corre tra palazzo Sella e palazzo Chigi. La legge di bilancio del 2025 si prospetta pesante, ma molto probabilmente bisognerà varare una manovra correttiva a giugno, superate le elezioni europee, comunque esse vadano a finire. La corsa allo spendi e spandi mette in ulteriore difficoltà il ministro dell’Economia costretto a bloccare promesse elettoralistiche come il bonus tredicesime e altre regalie natalizie. Ma quanto potrà reggere Giorgetti?

Dopo le elezioni l’Italia entrerà nella procedura d’infrazione, sarà accompagnata dalla Francia che però ha un problema di deficit, ma con il debito tira avanti perché ha un merito di credito nettamente superiore a quello italiano, quindi può prendere a prestito sul mercato a condizioni più favorevoli. La Spagna è su un sentiero di riduzione sia del debito sia del deficit grazie anche a una crescita più forte. L’Italia ha un doppio record negativo, del debito e del disavanzo pubblico. Quindi i negoziati che si apriranno con la nuova Commissione Ue saranno all’insegna della stretta fiscale, più o meno dura, ma sempre una stretta.

L’Italia deve fare i compiti a casa. La sua economia reale è solida e migliore di quanto molti si aspettavano, ma non può durare di fronte a una politica monetaria e fiscale convergenti nel ridurre la domanda. Il miglioramento dei conti, che va fatto senza accampare scuse, sarà meno doloroso socialmente ed economicamente in un quadro europeo diverso. Non si tratta di chiedere sconti, non stiamo a discutere salvataggi tipo Grecia e nemmeno Spagna o Irlanda. Si tratta di dare ai mercati il messaggio che l’Italia si muove in un contesto solidale.

In concreto, se cadessero i veti a emettere titoli di debito comune per finanziare gli enormi investimenti necessari per la transizione ecologica e per la difesa, come proposto da Draghi, non verrebbe in mente a nessuno di speculare contro l’Italia o la Spagna. Dieci anni fa, sull’onda dello tsunami finanziario, si era aperta una interessante discussione su come affrontare il grande stock di debito che pesa sull’area euro, uno stock cresciuto per far fronte al Covid-19. Alcuni avevano proposto di congelare con appositi strumenti il debito storico e calcolare solo il nuovo debito, e la discussione aveva acceso la fantasia dei maghi della finanza. Non se ne è fatto nulla. Oggi, dopo il buon risultato del debito comune anti pandemia, gli eurobond non possono più essere considerato un tabù. Chiudere gli occhi o farsi accecare da un anti-storico dogmatismo sarebbe rovinoso per tutti.

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