I giorni delle Feste di fine anno ci offrono l’occasione per ricordare come le Sacre Scritture descrivono la condizione della famiglia di Gesù ai tempi della sua venuta al mondo: costretta a vagare per le strade della Palestina da regole amministrative assurde e discriminatorie, senza un domicilio decente e in condizioni di lavoro che non tutelano la dignità umana. Ebbene, “non abbiamo alcuna difficoltà a riconoscere la stessa miseria nelle condizioni in cui versano i precari nella società di oggi, che è comunque la più ricca di sempre”. Parole degne di un sovversivo o, peggio ancora, di un Papa che, come ha fatto Francesco, ha avuto il coraggio di scuotere le coscienze.
Ma, a sorpresa, a puntare l’indice contro le nuove ineguaglianze è un articolo del Financial Times firmato “editorial board”, ovvero sottoscritto per intero dallo staff della più prestigiosa testata che si richiama al capitalismo. Una presa di posizione che non ha nulla a che vedere con il buonismo, più o meno sincero, più meno ipocrita, ma che riflette la volontà di intervenire per rimuovere un buco nero che, a ogni latitudine, riflette un limite del capitalismo, a danno della sostenibilità del sistema. “Come ci hanno insegnato John Maynard Keynes e Franklin Delano Roosevelt negli anni Trenta, la legittimità del sistema consiste nella capacità di allargare la sfera dei cittadini che godono dei suoi benefici”. Una caratteristica messa in crisi in questi anni dalla crescita dell’ineguaglianza, poi esplosa sotto i cieli della pandemia: lavori precari e paghe da fame, insicurezza e mancato rispetto dei diritti, a partire da quello della salute. E così via.
Come nell’Inghilterra di Dickens o nell’America di Steinbeck, i segnali dell’ingiustizia e del precariato si sono ormai diffusi a ogni livello, erodono gli spazi residui di quella che fu la borghesia che oggi non riesce più a garantire ai suoi figli un tenore vicino a quello dei padri. Colpa della crisi, dice qualcuno, accontentandosi di una banalità. Colpa della globalizzazione, incalza la destra sovranista, senza proporre soluzioni che non prevedano più diseguaglianza per i cittadini, immigrati o no, ai margini dello sviluppo. “L’esistenza di ampie fasce di popolazioni precarie – sottolinea ancora il FT – è la prova dello spreco fisico, umano e organizzativo nell’uso delle risorse. Un’economia divisa tra ricchi e poveri non è solo iniqua, ma inefficiente”. Ovvero, “il capitalismo si legittima se si rivela in grado di assicurare dignità a tutti”.
Belle parole, ma anche qualcosa di più. Una bella risposta alla retorica di Trump per cui il povero è soltanto un “perdente”, ma anche un richiamo ai valori di una società incapace di ribellarsi sia alla dittatura del mercato che a una visione miope della democrazia, basata solo sull’interesse a breve, sullo strapotere delle lobby, sull’incapacità di affrontare le sfide gigantesche del dopo pandemia, ambiente in testa. La vera sfida è quella di saper coniugare gli interessi a lungo termine con il consenso. O, se preferite, combinare l’efficienza e la visione a lungo che emerge dalla Cina con il rispetto dell’uomo, negato alle minoranze dell’impero di Pechino. O, pensando all’Italia, rimuovere i vincoli imposti dalla ricerca del consenso a breve che riflettono la nostra incapacità di avere una visione economica, cosa che ci è costata negli ultimi vent’anni la grande industria, che non si difende con le fiaccolate o la comparsate in tv.