Stando ai dati della Banca d’Italia, il surplus commerciale del nostro Paese a giugno è sceso a 9,2 miliardi di euro rispetto ai 71,4 di un anno prima. Considerando il continuo aumento del prezzo del gas, presto il saldo della bilancia dei pagamenti del nostro Paese potrebbe passare in negativo, come già successo peraltro alla Germania a maggio. Il modello export led, indicato come il migliore per crescere negli anni scorsi, sembra quindi essere messo in profonda discussione da quanto sta accadendo.



«Le ha detto cose giuste e importanti, ma si è dimenticato – evidenzia Gustavo Piga, professore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma – di specificare che era indicato come modello migliore per la crescita da un certo tipo di consenso che è poi lo stesso che ha portato l’Europa qui dov’è oggi, a essere cioè l’entità politicamente più debole del pianeta».



Come si è riusciti a ottenere questo disastroso risultato?

L’Europa ha scelto di essere la formica del mondo, che spende meno di quello che guadagna, rallentando quindi non solo la propria crescita, ma anche quella degli altri, nel modo più sbagliato possibile. La Germania e il nord Europa hanno deciso di creare un modello export led dannosissimo per l’Ue stessa perché competitivo rispetto agli altri Stati membri. Oggi, tra l’altro, comprendiamo in tutta la sua drammaticità che il perseguimento dei costi più bassi, tali da spiazzare l’export degli altri Paesi Ue, è passato anche dagli accordi con la Russia per un minor prezzo dell’energia. Oltre a questa devianza, ce n’è stata un’altra, non da leader, ma da follower, che è stata imposta chiaramente all’Italia.



Quale?

Il perseguimento di politiche di risparmio pubblico, le politiche austere, che hanno generato una bassissima domanda interna, riducendo la crescita e, conseguentemente, anche le importazioni. Quindi, sia Germania che Italia, per motivi molto diversi, hanno generato surplus commerciali. Ora il contesto è cambiato e si sta andando verso deficit commerciali, sintomo passivo dovuto alla nostra maggiore povertà e al crollo delle ragioni di scambio, e questi squilibri si aggiusteranno formalizzando la nostra maggiore povertà, lasciando deprezzare l’euro in maniera significativa.

Se l’euro si svaluta, questo aiuterà l’export…

Da un lato il deprezzamento dell’euro porta a un aumento dell’export, ma dall’altro ci ritroviamo con una moneta meno forte, che insieme al nostro impoverimento ci porterà a dover cambiare le nostre abitudini di consumo e quindi anche a importare di meno. Questo, però, è un modo di riequilibrare la situazione da attori deboli.

Qual è l’alternativa?

Un attore forte avrebbe da tempo cercato un coordinamento interno, e non una gara tra Paesi, orientato alla crescita. Il punto è che va cambiato il paradigma fiscale che ci ha reso così deboli di fronte al nuovo contesto. Se vogliamo che l’Italia si riprenda e torni a essere un attore importante, così che anche l’Europa possa tornare a esserlo, abbiamo bisogno di politiche fiscali diverse da quelle che ci hanno messo in ginocchio. Non mi sembra, però, guardando alla recente proposta tedesca in materia, che si stia andando nella direzione giusta.

Perché?

Già nelle premesse, si tiene puntigliosamente a precisare che la modalità per portare avanti il processo di riforma delle regole fiscali non è quella degli accordi bilaterali. Si tratta di un messaggio chiarissimo a Italia e Francia volto a far cessare i colloqui tra i due Paesi sul tema. Il che è un po’ paradossale, perché la Germania non si è coordinata con gli altri partner europei quando ha messo a punto il suo modello competitivo basato sull’export che ha dato origine a surplus commerciali contrari alle regole Ue.

Vede qualche altro messaggio per il nostro Paese?

Sì. La prima proposta riguarda la riduzione del debito ed è indirizzata in particolare a quegli Stati membri con significativi livelli di debito/Pil. Dunque, il documento è a uso e consumo, ovviamente obbligato, dell’Italia. Fa anche una certa tenerezza vedere i tedeschi scrivere che la costituzione fiscale europea ha dimostrato un alto livello di flessibilità. È un’affermazione priva di fondamento, tant’è che già nel 2018 un ente conservatore e vicino ai tedeschi come lo European fiscal board aveva evidenziato che le attuali regole fiscali hanno totalmente fallito. Poi, alla fine, si prende atto dell’ovvio.

A che cosa si riferisce?

Si dice che non funziona la regola sulla riduzione di un ventesimo all’anno del rapporto debito/Pil eccedente il 60%. E pertanto questa regola viene formalmente messa in soffitta. Ma lo era già di fatto per impossibilità di applicazione. C’è quindi da chiedersi quali geni abbiano potuto inventare una regola che dopo pochi anni si è costretti ad ammettere che sia impossibile da rispettare. 

È davvero impossibile da rispettare?

Facciamo un esempio concreto guardando all’Italia: per rispettare tale regola dovrebbe migliorare il proprio saldo primario di 4 punti di Pil. In soldoni, bisognerebbe ogni anno avere 80 miliardi di maggiori entrate, cioè tasse, o di tagli alla spesa, o un mix dei due. Si può ben immaginare quali potrebbero essere le conseguenze.

Dunque, se questa regola non ha funzionato, e la si accantona, si propone anche un’alternativa?

Nel documento c’è una parolina importante: si dice, infatti, che le nuove regole devono permettere ai Paesi di attuare politiche fiscali anti-cicliche. Quindi, in caso di difficoltà, viene consentito l’aumento della spesa pubblica e/o la riduzione delle tasse. Occorre, però, intendersi bene sul termine “difficoltà”.

Cosa intende dire?

Quando un Paese è in difficoltà? Secondo il documento tedesco, quando affronta una severa recessione. Ma l’Italia, al di là delle recessioni che ha attraversato, nel corso degli ultimi anni è cresciuta meno degli altri Paesi europei. Tra il 2014 e il 2019 il nostro Pil è salito dell’1,8% contro la media europea del 3,2%. E anche adesso, dopo lo shock del Covid, alla fine del 2023 saremo sopra dell’1,4% ai livelli pre-pandemici, mentre gli altri Paesi saranno cresciuti mediamente del 2,8%. È questo il problema, la difficoltà oggettiva del nostro Paese che va risolta e che causa debiti pubblici su Pil molto alti. Un problema che non può essere risolto nemmeno dall’apertura che il Governo tedesco fa.

Quale apertura?

Con il documento si intende preservare il raggiungimento dell’obiettivo di medio termine (3-4 anni) di riduzione costante del deficit/Pil fino al 3%. Su questo la Germania non è disposta a negoziare. Tutt’al più è pronta a concedere la possibilità di ricorrere, una tantum in un periodo non di recessione, alla clausola degli investimenti che già Juncker aveva proposto nel 2015.

Non è un bene che si parli della possibilità di maggiori investimenti?

La clausola si applicherebbe solamente ad alcuni tipi di investimenti cofinanziati dall’Ue, che non verrebbero quindi conteggiati nel disavanzo, e comunque sempre all’interno di un processo di riduzione del deficit/Pil. Viene non a caso specificato che questa clausola non deve confondersi con la cosiddetta golden rule sugli investimenti pubblici, la quale consentirebbe di non computare nel deficit gli investimenti pubblici che renderebbero un Paese più forte, più resiliente, più competitivo. Siamo, pertanto, dinanzi a una Germania che vuole far sì che l’Italia non possa recuperare quel livello di competitività che potrebbe crearle problemi.

In che modo maggior investimenti pubblici italiani potrebbero danneggiare la Germania?

Un modo per rendere più competitivo un Paese è fornire alle sue imprese i frutti di tanti investimenti pubblici: per esempio, infrastrutture migliori facilitano il trasporto delle merci e, di conseguenza, l’export. Come spiegato in precedenza, il surplus italiano non è dovuto tanto alla forza dell’export, quanto a una domanda interna fiacca, composta anche di scarsi investimenti pubblici, che in un circolo vizioso hanno reso le nostre imprese sempre meno competitive. La Germania ribadisce quindi il suo disinteresse a che uno dei Paesi fondatori più importanti ritorni all’interno della cerchia di coloro che crescono come tutti gli altri in Europa e mantiene pertanto intatte le premesse per una crisi drammatica populista al suo interno.

Quella tedesca è quindi una finta apertura…

È una totale finta apertura, come al solito miope. Perché se poi la Germania si dimostrasse preoccupata per il possibile esito delle nostre elezioni politiche, mi verrebbe da dire “chi è causa del suo mal pianga se stesso”. Io temo che l’Italia, da solita follower, finisca per esultare di fronte alla proposta tedesca sulla clausola degli investimenti, sostenendo che ci aiuterà a superare le nostre difficoltà. Spero quindi che qualsiasi Governo uscirà dalle urne si batta per una golden rule sugli investimenti pubblici. Tra l’altro il nuovo Esecutivo si insedierebbe proprio nel momento in cui bisogna sedersi al tavolo per discutere del futuro delle regole fiscali europee, quindi il timing sarebbe perfetto.

Non sarebbe però un obiettivo facile da raggiungere.

Se volessimo veramente fare uno sforzo serio dovremmo riconoscere sia che non si spendono del tutto bene le risorse in conto capitale, sia che c’è spesa in conto corrente che è fondamentale per la resilienza e la sostenibilità di un Paese, basti pensare agli stipendi degli insegnanti. Bisognerebbe quindi creare un meccanismo europeo che consenta di verificare la qualità della spesa, che garantisca che quando si vuole spendere per il futuro ciò avvenga veramente, includendo però anche certi tipi di spesa corrente. Al contempo, occorre far sì che le risorse utilizzate in questa direzione non vengano computate nel deficit. Questo sarebbe lo scambio ideale da proporre.

(Lorenzo Torrisi)

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