Un disastro umanitario di proporzioni inaudite. Infinitamente peggio di Gaza. Ma nessuno ne parla. Quella del Sudan è una tragedia passata nel dimenticatoio, anche se riguarda milioni di persone malnutrite e che rischiano letteralmente di morire di fame per la situazione che si è creata a causa della guerra fra le truppe del presidente provvisorio Abdel Fattah Al Burhan e quelle delle Forze di supporto rapido di Mohamed Hamdan Dagalo. A metà gennaio si parlava di quasi 8 milioni di persone che avevano dovuto lasciare la loro casa, ma ora il numero è quasi raddoppiato. E comprende anche 700,000 bambini che non hanno una alimentazione adeguata. Neanche queste cifre, spiega Mussie Zerai, sacerdote eritreo che ha vissuto in Italia occupandosi di migranti e di rifugiati dell’Africa subsahariana, in particolare quelli del Corno d’Africa, descrivono a pieno l’entità della tragedia. Si tratta di numeri sottostimati: le persone che vivono in assoluta indigenza sono molte di più. E se ad esse si aggiunge la gente del Tigray e di altre aree del Corno d’Africa, la situazione è ancora peggiore. Una ferita profonda per l’umanità intera.



La situazione in Sudan sembrava disastrosa già all’inizio della guerra, nella primavera scorsa, ma non c’è limite al peggio: oggi si parla di 11 milioni di sfollati e 3 di profughi che si sono rifugiati in altri Paesi. Le persone interessate sono sette volte rispetto a Gaza. Cosa sta succedendo?

Più si prolunga il conflitto e più diventa tutto più complicato. Tenendo conto che alla guerra si aggiungono anche la siccità e una serie di calamità naturali che peggiorano le condizioni di vita di profughi e sfollati. Ogni cosa scarseggia e non c’è tutto questo flusso di aiuti verso il Paese: ciò che arriva non è sufficiente. Le Nazioni Unite continuano a fare appelli, ma il mondo è distratto da tutt’altro. Il Sudan, d’altra parte, non è l’unico luogo dimenticato: anche il Tigray è nelle stesse condizioni a causa delle conseguenze della guerra. La fame sta mietendo tante vittime anche lì. Non parliamo poi della Somalia. Quando è stato distrutto tutto non hai le risorse per rialzarti.



Quindi pochi aiuti e anche, vista la situazione, difficili da recapitare a chi ha bisogno?

La guerra in Sudan è ancora in corso, non si riesce ad accedere alle zone che sono interessate dal conflitto: la gente che è intrappolata lì patisce la fame. Non ha niente, sta letteralmente morendo di fame, non parliamo in senso figurato.

Dove si stanno rifugiando le persone, dove si spostano?

Come succedeva anche nei mesi precedenti non hanno risorse neanche per intraprendere un viaggio. Molti hanno semplicemente lasciato Khartoum, la capitale, per cercare rifugio nei villaggi che si trovano intorno. Gli 11 milioni di sfollati sono lì, appoggiati fuori dalle città, possibilmente lontano dai luoghi teatro del conflitto, là dove hanno potuto spostarsi. Però anche nei villaggi non è che cada la manna dal cielo.



E poi, oltre agli aiuti che non arrivano, anche gli agricoltori del luogo non riescono a coltivare i loro terreni?

Il problema è che non c’è stata neanche la possibilità di seminare. Il conflitto non ha permesso alle persone di prendersi cura del loro terreno, di lavorare per prepararlo. E così non è stato possibile raccogliere niente.

Ci sono almeno strutture provvisorie in cui gli sfollati possono trovare riparo?

In alcune zone le Nazioni Unite sono riuscite a installare delle tende, però le tende non si mangiano. Se gli aiuti non arrivano, se l’ONU non riceve fondi a sufficienza dai Paesi donatori per rispondere a quel bisogno fa fatica a portare qualcosa da mangiare. L’Occidente è saturo di notizie che vengono da zone di guerra, in più molti Paesi stanno battagliando con la crisi e l’inflazione, ci sono meno risorse. C’è assuefazione per i conflitti e i mass media si sono focalizzati su Ucraina e Gaza dimenticando tutto il resto. Non si parla di Sudan, Tigray, Somalia.

L’esercito sudanese dice di aver recuperato alcuni territori, per esempio una parte della città di Omdurman, le Forze di supporto rapido prevarrebbero a Khartoum. La guerra dal punto di vista militare come sta andando?

Ogni parte rivendica di aver conquistato questo o quel territorio, ma la sostanza delle cose non cambia e fino a che non si siederanno a un tavolo dimenticando tutti i condizionamenti che vengono loro dall’esterno, dalle nazioni che sostengono le due fazioni, pensando solo al bene della gente, il Sudan non avrà pace.

Ci sono stati tentativi diplomatici per risolvere la questione?

Sì, ma non basta sedersi al tavolo: bisogna che l’obiettivo primario sia quello di pensare al bene comune. Ci sono state iniziative da parte dei sauditi, dell’Unione africana, dell’Etiopia. Ma anche gli organizzatori pongono delle condizioni perché hanno degli interessi da difendere e non viene messo al centro il popolo sudanese con la sua dignità.

Ma c’è qualche piano che possa fare da base per sviluppare il dialogo?

Era stata annunciata una proposta del governo eritreo e i sauditi ne avevano presentata un’altra insieme agli USA. Ma non hanno portato a niente. Tutte prefigurano una possibile convivenza tra le due parti in conflitto, ma alla fine ognuno rivendica il territorio e il potere che ha conquistato, rispondendo a interessi di altri Paesi. Pesano anche i debiti che entrambe le fazioni hanno accumulato per poter sostenere la guerra, debiti che devono pagare.

Dal punto di vista militare chi sostiene Al Burhan e chi Dagalo?

Ci sono sostenitori visibili e invisibili. Il governo è sostenuto dagli alleati degli americani, sauditi e anche altri attori regionali. L’Egitto sta giocando un ruolo. I russi sostengono i “ribelli”. Poi ci sono potenze che non si espongono in prima persona ma fanno da intermediari come gli Emirati Arabi e il Qatar e altri da parte africana. Ognuno ha un suo interesse: l’Etiopia per la gestione del Nilo, l’Egitto lo stesso, sostenendo l’una o l’altra nazione in base alla posizione che assume su questa questione.

Tornando al tema degli sfollati e dei profughi si parla di 700,000 bambini malnutriti. Sono cifre che fanno veramente impressione. Non bastano per muovere l’opinione pubblica internazionale?

È una conta per difetto: non sono solo 700,000. Questi sono i bambini che stanno nei territori che è stato possibile raggiungere. Poi ce ne sono altri: basti pensare al Darfur, al Kordofan meridionale.

Anche la stima degli 11 milioni di sfollati e dei 3 di profughi, quindi, è per difetto?

Certo. È sempre una statistica realizzata in base alle persone che si è riusciti a raggiungere.

(Paolo Rossetti)

 

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