Sono le undici di mattina del 20 ottobre 1969, in un piccolo appartamento di St. Petersburg in Florida, così lontano dai boschi e da quel mondo franco-canadese di Lowell, Massachusetts, dove era cresciuto giocando a rugby e frequentando la parrocchia. Jack Kerouac, 47 anni, è seduto sulla sua poltrona preferita e come al solito sta bevendo del whiskey e mangiando del tonno da una scatoletta di latta. Sta lavorando a un libro, l’ennesimo, come ha fatto per tutta vita, anche adesso che ha perso quasi ogni lucidità, alcolizzato cronico come è diventato. Vive in quella casetta con la madre.



Si sente male, va in bagno e comincia a vomitare sangue. Portato in ospedale, si scopre che ha avuto un attacco di emorragia esofagea. In pratica, la classica ulcera devastata dei bevitori. Diverse trasfusioni cercano di compensare la perdita di sangue, i medici tentano anche un intervento chirurgico, ma il fegato ormai spappolato impedisce la coagulazione del sangue. Muore alle 5 e 15 del mattino seguente, il 21 ottobre, senza aver mai ripreso conoscenza. La diagnosi è morte per emorragia interna, sanguinamento delle varici esofagee, causata da cirrosi. Una possibile concausa viene identificata in una ernia non curata causata da una rissa in un bar alcune settimane prima.



Finisce così, miseramente, ormai solo, dimenticato da tutti, per sua stessa volontà, dopo essersi ritirato in quello che lui definiva “il mio piccolo convento dove mia madre è il priore”, uno dei massimi scrittori americani del novecento. Il suo desiderio di vita, feroce, carnale, assoluto, aveva sconvolto le regole della scrittura, aveva dato vita a un intero movimento letterario, aveva cambiato la vita di milioni di giovani americani e non solo da quando il suo libro più famoso, On the Road, Sulla strada, pubblicato nel 1957 ma scritto diversi anni prima in un flusso di coscienza ininterrotto su un rotolo di carta senza una interrompersi mai, sostenuto da alcol e anfetamine, era stato pubblicato. Il suo motto era tutto in quella frase, stampata su On the Road: “Sal, dobbiamo andare e non smettere mai di andare finché non ci arriviamo”. “Dove stiamo andando, amico?” “Non lo so ma dobbiamo andare.”



L’anima stessa dell’America, il continuo movimento, alla ricerca di un posto migliore, di una vita migliore, la terra promessa che nessuno aveva mai trovato perché impossibile da trovare in questa vita, era l’irrefrenabile desiderio della sua anima, era l’anima stessa dell’America. Ma questo desiderio, impossibile da realizzarsi, Kerouac lo avrebbe pagato con la vita: “Le uniche persone per me sono i pazzi: quelli che sono pazzi di vita, pazzi di voglia di parlare, pazzi da desiderare di essere salvati, desiderosi di ogni cosa allo stesso tempo, quelli che bruciano, bruciano bruciano come le favolose candele gialle delle chiese romane”.

Questo desiderio di vita era il rifiuto della nuova America, quella che nell’immediato dopo guerra era diventata una massa votata al consumismo più sfrenato, manipolizzata, resa ebete:  “Preferirei viaggiare su treni merci per tutto il paese e cucinare il mio cibo in lattina sui fuochi di legno, piuttosto che essere ricco e avere una casa o un lavoro”. Il rifiuto di una vita banale, che uccide ogni desiderio: “Perché alla fine, non ti ricorderai del tempo trascorso a lavorare in ufficio o a falciare il prato. Sali su quella maledetta montagna”. Su quella montagna Kerouac avrebbe cercato di salire per tutta la vita. Ma alla fine la realtà avrebbe chiesto il conto da pagare: “Non si può vivere in questo mondo, ma non c’è altro posto dove andare”.

L’oceano tempestoso che ammutolisce e toglie il fiato di Big Sur, l’orrore metropolitano dei Sotterranei, la figura demoniaca del Dottor Sax, la malinconia devastante di Tristezza, gli Angeli della desolazione, la purezza della ricerca spirituale dei Vagabondi del Dharma, l’illuminazione alla ricerca delle radici e della memoria annegata nell’alcol di Satori a Parigi, la purezza e la bellezza del primo amore giovanile di Maggie Cassady, cercando nella memoria la risposta all’ansia esistenziale.

Per molti studiosi, alla fine Kerouac non è stato che un piccolo monaco errante del XX secolo, come i monaci erranti del Medioevo, i “beatas”, i beati, una setta cattolica che si ribellò agli eccessi della Riforma, come i padri dei Beat si ribellarono a una società che soffocava tutti nelle regole del moralismo puritano. “Un continuum spirituale attraverso i secoli”, lo definì un critico.

E poi la musica, da cui attingere respiri, pause e lamenti. Impossibile pensare al suo stile letterario senza la musica: A quei tempi, nel 1947, il bop impazzava in tutta l’America. I ragazzi del Loop suonavano, ma con stanchezza, perché il bop era a metà strada fra il periodo del Charlie Parker di Ornithology e quello di Miles Davis” scrive in On the Road. La sua era “spontaneous bop prosody”, scrittura che traeva spunto dall’improvvisazione jazzistica: “Voglio essere considerato un poeta jazz, uno che suona un lungo blues in una jam session d’una domenica pomeriggio”. Tra il 1958 e il 1959 incide tre dischi: Poetry for the beat generation, dove la sua voce è accompagnata dal pianoforte di Steve Allen. In Blues and Haikus è con due sassofonisti, Al Cohn e Zoot Sims. Per Readings by Jack Kerouac on The Beat Generation, sceglie invece di essere solo, leggendo estratti da “I sotterranei” e alcune poesie.

“La Beat Generation è un gruppo di bambini all’angolo della strada che parlano della fine del mondo”. Ma non c’è posto per i bambini in questo mondo. Alla fine Jack Kerouac poteva andarsene solo così, in una giornata di ottobre, in una casetta nella Florida dei pensionati, sconfitto da un desiderio così grande che la vita non è in grado di contenere: “La mia colpa, il mio fallimento, non è nelle passioni che ho, ma nella mia mancanza di controllo su di esse”. Ma in fondo al cuore di un ubriacone, di un fallito, di un perdente, si nascondeva una certezza: “Sul lago apparvero riflessi rosei di vapore celeste e io dissi: Dio, ti amo e guardai il cielo e lo intendevo sul serio. Mi sono innamorato di te, Dio. Abbi cura di noi tutti, in un modo o nell’altro. Per i bambini e gli innocenti è tutto uguale”.