C’è una scena diventata iconica nel film di Martin Scorsese Taxi Driver. Il protagonista, l’ex veterano del Vietnam Travis Bickle, sta lentamente scivolando nella paranoia omicida. È seduto nel suo minuscolo appartamento e osserva senza dimostrare alcun interesse la televisione, sul cui schermo opaco appaiono alcune coppie intente a ballare. In mano ha una pistola e la punta verso lo schermo come a far esplodere tutto quello che lo interpella e lo delude. Nella scena precedente del film Travis ha ucciso un ladruncolo in un negoziato sotto casa. Le coppie ballano sulle note di una canzone che ai tempi del film (il 1976) era già nota.
È la title track del disco Late for the Sky del cantautore californiano Jackson Browne uscito un paio di anni prima, cinquant’anni fa a settembre di quest’anno. Scorsese, come farà sempre di più nel corso della sua carriera, utilizza un brano rock, la musica della sua generazione, dimostrando la sua conoscenza di questa musica e di quanto la consideri ideale per i suoi film. Una scena piuttosto lunga, quasi due minuti, in cui il regista elimina ogni rumore di sottofondo per fare in modo che lo spettatore sia attirato dalla musica. L’attore è l’emblema dell’alienazione più totale, della disperazione metropolitana, della solitudine più devastante.
C’è una apparente contraddizione fra quella musica dolce e avvolgente e la disperazione del protagonista. In realtà Late for the Sky è una canzone che parla della fine del matrimonio, del divorzio, del suo autore:
Da quanto tempo sto dormendo?<
Da quanto tempo vago da solo nella notte?
Da quanto tempo rincorro quel volo del mattino
Tra promesse sussurrate
E la mutevole luce del letto
Su cui entrambi stavamo sdraiati,
in ritardo per il Cielo?
La canzone sembra condurre il protagonista in una sorta di trance. Guarda la coppia che balla come se volesse esserci lui in quella scena. La canzone, che tratta dell’alienazione sentimentale, si adatta perfettamente al tema del film e sembra dire quanto sia importante per Travis avere un contatto umano reale. Sembra essere un uomo diverso da quello della scena precedente e ha questa strana aura di calma intorno a lui. Agita e impugna la pistola senza convinzione, quasi come un uomo a cui non serve. Per qualche secondo punta la pistola direttamente verso la telecamera, come un bambino che cerca di emulare i cowboy dei western di Hollywood, ed è quando si accorge di ciò che sta accadendo sullo schermo televisivo che si dimentica dell’arma mortale che ha in mano. Travis, per un attimo, sembra chiedersi cosa sia andato storto nella sua vita.
La parte della canzone che udiamo è quella finale. Mentre in Travis/De Niro matura il bisogno paranoico dell’affermazione di sé per vincere in maniera malata lo squallore di cui è fatta la sua vita, dalla televisione si sente l’assolo di chitarra elettrica di David Lindley che ci fa planare dolcemente, con uno zoom che va verso lo schermo televisivo, verso il secondo ritornello della canzone, che parla – non a caso – della fine delle ipocrisie, dell’accettazione della propria solitudine, della fine delle illusioni.
La pellicola sfuma dalla visione opaca delle immagini televisive ai grattacieli di New York. È l’America degli anni ’70, che ha perso tutti gli ideali della decade precedente ed è sprofondata nel male di vivere.
Late for the sky è un disco spartiacque nella storia della musica del Novecento. Se già Bob Dylan aveva dimostrato che le canzoni rock possono avere un linguaggio adulto, Jackson Browne dipinge in questo disco il manifesto del rock adulto e allo stesso tempo degli anni ’70. Affronta con coraggio l’abisso in cui è precipitata la sua generazione e lo affronta. Con dolcezza, poesia e sofferenza, nelle canzoni narra il divorzio, il suicidio, la morte: in una parola un’America che ha perso la sua innocenza. La ritrova, in parte, solo nel finale, nel brano Before the deluge, in cui emerge una sensibilità ambientalista, che però piange dolorosamente i sogni andati sconfitti:
E sulle ali coraggiose e folli della giovinezza
Volavano in giro sotto la pioggia
E le loro piume, una volta così belle, si strapparono e si sbrindellarono
E alla fine si scambiarono le ali stanche
Per la rassegnazione che porta vivere
E si scambiarono il chiarore fragile e luminoso dell’amore
Per il glitter e il rossetto
E in un attimo furono travolti dal diluvio
In una scena di meno di due minuti, Martin Scorsese ha dipinto una generazione, una umanità dolente, la realtà senza sconti e senza appello. Quello che la migliore musica rock ha saputo fare e che il regista italo-americano indagherà sempre di più.
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