La premiata coppia Battisti-Mogol, tra le “Emozioni” della loro bellissima canzone, non hanno messo una medaglia d’oro olimpica. Non c’è niente che tocchi le corde della nostra umanità come un’impresa ai Giochi olimpici, non c’è nulla che crei un terreno comune come essere parte, anche solo da giornalisti, spettatori, connazionali, di una vittoria olimpica. Chi non si sente avviluppato da quest’emozione, come se anche lui fosse ai blocchi in attesa dello sparo o chieda il sostegno del (poco) pubblico presente prima di tentare di saltare un’asticella a 2,39 metri, chi non si sentisse parte di un evento storico, anche davanti alla tv, dovrebbe porsi una domanda sulla sua umanità. E soprattutto trovare una non facile risposta.

Io l’ho vissuta tante volte, lì, sul posto: la vittoria di Gelindo Bordin nella maratona di Seul (1988), il trionfo del Settebello nella più drammatica finale della storia a Barcellona (1992), la pioggia di medaglie nel nuoto a Sydney (2000), l’oro della pallanuoto femminile ad Atene (2004), la vittoria di Federica Pellegrini a Pechino (2008). Però sono caduto dalla seggiola pure da lontano, per il trionfo di Pietro Mennea (1980), per quello di Alberto Cova (1984) e anche per quelli di Alberto Tomba (1988) e della staffetta nordica (1994) parlando di Olimpiade invernale.

Stavo pensando, qualche ora fa, a un elogio del secondo e del terzo posto, uno di questi giorni, perché sentivo e leggevo tanti commenti anti-sportivi nel paese più anti-sportivo che c’è, sul fatto che gli ori fossero solo due e sui “fallimenti” di chi si piazza secondo o terzo. Poi è arrivata la notte di Lamont Marcell Jacobs, nato a El Paso e cresciuto a Desenzano, tanto da parlare un inglese di malavoglia, e di Gianmarco Tamberi, marchigiano di Civitanova, nello stadio olimpico deserto. Sono arrivati, in ordine di apparizione, l’oro del salto in alto (ex aequo) e quello, straordinario e devastante nei 100 metri, dove Marcell aveva già stabilito un record, come primo italiano a qualificarsi per la finale. Poi ne na ha fatto un secondo, vincendo e chiudendo in 9”80, lo stesso crono di Bolt.

Quindi ho cambiato idea ma da un elogio del secondo e del terzo posto, che rimane comunque, non sono passato a una semplice esaltazione del primo posto, ma piuttosto a un trattatello sulle emozioni. E a quella domanda, che si può fare in modi diversi: cosa avete provato nel vedere l’abbraccio di Lamont Marcell e di Gianmarco che aspettava il compagno sulla pista dopo la finale dei 100 metri? Io ho pensato all’emozione di sentirsi parte di un cammino, di una storia, al sentimento che afferra chi è stato toccato da qualcosa che non appartiene a tutti, ma a cui tutti possono partecipare.

Ecco, il più grande e potente messaggio di quelle gigantesche imprese sportive è che, come questi due moderni eroi omerici, noi possiamo provare le stesse emozioni. Traduzione dal greco a parte, non vi siete sentiti trasportati davanti alle mura di Troia con Achille o nell’antro di Polifemo con Ulisse? In quel fondersi di diversità, di discipline differenti, c’è anche un abisso caratteriale: Lamont dopo il 9”80 e la vittoria pare uscito da un esame di scuola guida più che da un appuntamento con la leggenda, mentre Gianmarco esulta, rotola, salta, sconvolto dalla rivincita sulla sorte, testimoniata dal gambaletto di gesso che dovette indossare per l’infortunio che lo escluse dall’Olimpiade di Rio. Diversi ma fusi nell’oro di quella vittoria e nel loro abbraccio. Uniti a tutti noi dall’emozione.

Mi dispiace dirvelo, ma se non vi sentite dentro quell’abbraccio, avvolti dal tricolore, figli di una stessa emozione, beh, allora continuate pure a insultare/insultarvi o a credere di fare commenti intelligenti, nascosti dall’anonimato dei social. Per voi non c’è speranza. Se invece vi ha percosso qualcosa, basta un lampo come quelli che vedo fuori dalla mia finestra, forse ce la potete ancora fare.

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