Se la cava Jamil. Sale sul palco dei Magazzini con tutti i suoi amici, la sua squadra o “gang” che dir si voglia, detto con uno dei termini che i ragazzini creano e accantonano con quella rapidità così disorientante per gli adulti. Una cosa però va chiarita: gli amici sono sempre con Jamil sul serio, e sono sempre gli stessi, una decina di ragazzi vestiti con la maglietta “Baida army”, che si può anche comprare al tavolino del merchandising dentro il locale. Come un vero esercito, sono tutti belli piazzati e stanno ai lati del palco senza fiatare, con le braccia incrociate. La scena è anche un po’ comica, ma non so se andrei a dirglielo.



Il rapper canta solo canzoni dal nuovo album, Most Hated. Sotto al palco ci sono 300-400 ragazzi, che non bastano minimamente a riempire i Magazzini Generali ma almeno non li fanno sembrare vuoti. Sono tutti sotto i trenta, anzi la maggioranza dei presenti è poco più che maggiorenne. Jamil fa subito capire di essere di un’altra pasta rispetto ai rapper che hanno aperto il suo concerto. Questi ultimi, tutti più o meno sconosciuti, hanno sciorinato i soliti stilemi della trap, ormai davvero triti (testi sulla droga venduta, sulla polizia che ti bracca, sul bello e il brutto di una vita criminale).



Jamil invece è molto più riflessivo, attento alla situazione sociale in cui si trovano lui e la sua squadra. Ed è credibile anche perché quei ragazzi che vuole rappresentare ce li ha accanto. L’approccio di Jamil è molto più realistico, ad esempio in una strofa di Trap Baida dice: ”Odio solo sbirri corrotti, non odio il poliziotto normale”. Non esattamente il testo tipo che ascoltano oggi i quindicenni: quelli sono molto meno ragionevoli, fidatevi. Anzi, probabilmente sono solo inni a un edonismo senza compromessi, che spaventano e allontanano gli adulti.

Tra una canzone e l’altra, oltre a insultare i colleghi con cui ha avuto problemi in passato (nel gergo si chiamano dissing, qua se la prende con Noyz Narcos, Laioung, Gallagher), Jamil critica la scena rap ricordando di nuovo come ormai il livello tecnico dei rapper sia sceso sottoterra, visto che tutti cantano con sotto non solo la loro base, come succede sempre, ma con tutta la canzone sotto, con tanto di parole. Un vero e proprio playback, che oggi i rapper accompagnano canticchiando giusto qualche parola al microfono mentre il dj riproduce il loro disco.



In effetti non si può che constatare come la trap abbia sì portato una maggiore attenzione alla musicalità dei pezzi, ma anche un impoverimento del bagaglio tecnico dei rapper, che forse prima era anche troppo ingombrante, ma almeno gli consentiva di avere il fiato per cantarsi da soli le canzoni ai live. Jamil, invece, si è formato quando c’erano ancora le battle di freestyle, e si sente. In quei contesti ci si confrontava in diretta improvvisando sotto una base (un rapper contro l’altro, cantando a turno), e serviva avere fiato, carisma, essere svelti di testa.

Meglio fare un paio di esempi presi dalla serata del 20 dicembre ai Magazzini per capire meglio il distinguo. Primo: Jamil durante l’esibizione fa un extrabeat, un particolare stile di rap dove si altera la velocità con cui vengono pronunciate le parole arrivando a dirne il doppio rispetto a quelle contenute nei normali versi della canzone. Questa tecnica viene dagli Usa, dove è chiamata chopper rap (chopper in gergo statunitense sta a indicare l’Ak-47, un fucile in grado di sparare molti proiettili in poco tempo, così come il rap in extrabeat serve a dire molte parole in poco tempo). In Italia non molti ne sono capaci, tra i pochi c’è Gemitaiz, che come Jamil viene da una cultura precedente alla rivoluzione trap. Va detto però che anche alcune nuove leve, come Nayt, padroneggiano bene questa tecnica.

Secondo esempio: Jamil decide di fare la seconda strofa della sua ultima hit, Da Solo, che ha appena raggiunto i 5 milioni di views su Youtube, senza l’accompagnamento della base, a cappella. E se la cava senza problemi, senza farsi mancare il fiato, anche se ha 38 di febbre, come dice al pubblico aggiungendo di non volersene lamentare. Purtroppo il concerto dura solo 50 minuti, ma perlomeno sono ben orchestrati e il live non perde mai d’intensità.

Se Jamil è riuscito a sopravvivere senza firmare con le major e andare in radio a promuovere il disco, è perché è stato in grado di adattarsi all’epoca della trap. Prima faceva rap con basi rock, ma dal 2016, quando ha fatto uscire “Scarpe da pusher”, che, dichiara dal palco, è il pezzo “con cui tutto è iniziato”, (e l’unica canzone della serata che non viene dal suo ultimo album) ha saputo aggiornarsi all’era dei beat lenti, delle tracce che suonano bene e dove non conta solo la foga del rapper. Jamil poi aveva già il ruolino giusto, la credibilità per fare il rapper di strada: “Parli di rap non mi sono venduto, sempre qua sotto ho anche venduto”, ricorda in una strofa di Quartiere. La credibilità aiuta, ma non basta. Servono i suoni e le idee giuste. E Jamil le ha trovate, anche grazie al suo produttore Jaws, ed è pure in grado di rapparle bene ai concerti. Non è da tutti.