Domani un uomo morto a 37 anni che ha passato gran parte della sua vita in prigione viene dichiarato beato dalla Chiesa cattolica. Un giovane alto, sportivo, affabile, che si chiamava Jan Havlik ed era nato in un paesino nel nord-ovest della Slovacchia. Il suo sogno era studiare e diventare sacerdote e missionario di San Vincenzo de Paoli, al servizio di Gesù Cristo. Sul Sussidiario è già apparso un bellissimo articolo su di lui, al quale rimando per una descrizione completa della sua vita. Io qui vorrei ricordarne alcuni episodi per spiegare come mai questo ragazzo viene proclamato beato.



Jan nasce il 12 febbraio 1928 nella famiglia di un povero operaio a Vlčkovany presto Skalica (ora Dubovce). Desidera ardentemente studiare e nel suo diario manoscritto, leggiamo: “Poiché volevo proseguire gli studi, per due anni ho frequentato la Scuola Civica a Holic, dove arrivavo a piedi, 16 km al giorno (un bambino di 12 anni, ndr)”. La famiglia è povera e Janko è costretto a indossare gli stivali di gomma del padre, perché non c’erano altre scarpe disponibili. Continua: “Dopo due anni ho cominciato a frequentare il Ginnasio a Skalica, in bicicletta tutti i giorni, questo significava 36 km al giorno”.



Nel 1943, Jan Havlik entra nella Scuola Apostolica (“seminario minore”) dei Padri di San Vincenzo de ‘Paoli a Banska Bystrica, mentre parallelamente porta a compimento gli studi del ginnasio, conseguendo la maturità nel maggio del 1949. Proprio in quei giorni, il IX Congresso del Partito Comunista Cecoslovacco decide la liquidazione della religione e della scuola cattolica, con primo passo lo scioglimento degli ordini religiosi. Alla fine del 1949, durante la notte, la polizia entra nel seminario dei Padri Lazzaristi e trascina tutti in cella per gli interrogatori. Imprigionati senza processo, vengono portati ai lavori forzati per la costruzione di alcune dighe. E per essere “rieducati”, così da poter entrare nella Facoltà di Teologia appena creata a Bratislava, in cui lo spirito ateo dominava. La stragrande maggioranza dei giovani religiosi si rifiuta di entrarvi e alla fine di agosto 1950 questo “monastero speciale“ viene eliminato e tutti sono rimandati a casa.



Jan non riesce e non vuole adattarsi a questa nuova situazione. Ai primi di settembre contatta i confratelli del noviziato e con loro presenta ai superiori vincenziani un piano inusuale: contemporaneamente al lavoro, continuare lo studio di formazione spirituale e di teologia in modo privato. I novizi affittano un appartamento comune e ognuno si trova un lavoro. Così nasce spontaneamente a Nitra il Seminario teologico clandestino, divenuto noto come “gruppo di Nitra”.

Il 28 ottobre 1951 Jan Havlik, insieme agli altri, viene arrestato con l’accusa di “Sospetto tradimento contro lo Stato”. I seminaristi vengono chiusi in isolamento e picchiati, Jan perde in poche settimane 20 chili. Lo scopo della tortura è che confessi per iscritto i crimini che gli vengono dettati dagli investigatori. Nell’accusa del 24 novembre 1952, il pubblico ministero scrive di Jan: “…l’ex seminarista dell’ordine… ha partecipato alla creazione di una scuola segreta per la preparazione teologica … si è preparato a svolgere attività antistatale (…) ha aderito alla tentata sovversione del governo e della Repubblica popolare democratica, commettendo il reato di tradimento ai sensi del § 78”. Il processo si svolge nel febbraio 1953 a Nitra. Prima della condanna le sue ultime parole sono: “Prego l’Alta Corte perché la pena che vorrà comminare a coloro che soffrono per noi, sia divisa fra noi e che la parte più grande spetti a me”. Il procuratore si infuria e gli urla: “Voi fanatico volete essere martire? Pensate di essere canonizzato?”. Janko tace.

Viene condannato a 14 anni di carcere, scesi in appello a 10. A fine febbraio 1953, Jan Havlik viene scortato al lager di Jáchymov, nella miniera di uranio. Nel libro del carcere viene descritto come “ex seminarista in un ordine religioso – agente del Vaticano” che ha “abusato del sentimento religioso della gente per obiettivi anti-popolari e reazionari in favore del Vaticano”. Nel campo, dove molti sono detenuti comuni, i minatori suoi compagni gli vogliono bene, attirati dalla sua pace interiore e dall’affetto che mostra loro. Jan, in questo clima di fatica, di sofferenza e di peccato scopre che, se non può essere sacerdote, può essere missionario.

Gli anni dal 1954 al 1958 li passa a Příbram nel campo di Bytíz, lavorando ad un migliaio di metri di profondità su due pozzi come manovratore di pompa. E, sempre, come “segreto missionario”. Anche in quella situazione così difficile, si forma un gruppetto che poi negli anni sarà protagonista nella lotta della cosiddetta “Chiesa clandestina”: Srholec, Vlado Jukl, Silvo Krcmery, Jeronim Mokrojansky e altri. Se riescono, ogni terza domenica del mese si incontrano e ognuno istruisce gli altri sugli argomenti che conosce meglio. Nel frattempo ha vari infortuni in profondità, ma lo curano solo quanto basta a rimetterlo in sesto e lo rimandano di nuovo nelle profondità della miniera.

Jan Havlik sarebbe stato immediatamente liberato, se in prigione avesse espresso il desiderio di sposarsi e di non voler più diventare sacerdote. La sua decisione nel rimanere fedele alla sua prima scelta vocazionale e continuare anche in carcere la sua attività missionaria lo hanno portato al secondo processo.

Alla fine di aprile del 1958, sulla base di false accuse, viene sottoposto a un processo farsa ed è trasferito nel carcere di isolamento a Praga-Ruzyn, dove le vittime vengono torturate psicologicamente, con il lavaggio del cervello, anche mediante psicofarmaci. Alla pena viene aggiunto un altro anno e, più grave, nei giudizi su di lui si aggiunge una frase di “maledizione”: “Nel periodo di prigionia ha compiuto gravi crimini. La detenzione non ha su di lui nessun effetto di miglioramento”. A causa di questa “maledizione”, la sua domanda di ammissione all’amnistia del maggio 1960 sarà ripetutamente rifiutata. Questa amnistia è stata eccezionale, perché ha toccato un numero di prigionieri politici mai raggiunto prima, compresi gli altri del “gruppo di Nitra”, ma a Jan l’amnistia viene rifiutata. In prigione viene sempre tenuto in isolamento come “nemico indefesso del potere democratico popolare”.

All’inizio di ottobre del 1960, Jan viene trasferito nel carcere Pankrac a Praga e destinato a lavori difficili e pericolosi, malgrado i medici già da tempo dicano che necessita di cure e di una operazione al cuore. Il 7 agosto 1961, Jan sviene sul lavoro e viene ricoverato all’ospedale della prigione a Ilava in Slovacchia. Sul certificato del suo medico di Praga c’è scritto: “Diagnosi – grave malattia cardiaca permanente (…) il paziente è cosciente del suo stato, gli è stato detto per la prima volta (…) nel 1954. Un significativo peggioramento si è verificato nel febbraio di quest’anno. (…) Eppure è stato dichiarato in grado di lavorare”.

Il letto di ospedale di quella prigione nel gergo penale è detto “rampa di lancio per la morte”, ma per Janko “è altare sacrificale, sul quale presentare il proprio corpo”. Nell’ospedale sanno che il suo cuore può fermarsi da un momento all’altro e Jan viene rimesso in libertà. È il 29 ottobre 1962, 11 anni dopo il suo arresto. Torna a casa come invalido e malato terminale. L’operazione che lo avrebbe salvato non è più possibile. Del giovane forte come un abete è rimasto solo un relitto. Eppure, con quel poco di forze che gli restano scrive i propri pensieri su due quadernetti: “ La Via Crucis delle piccole anime” e “Diario”. Inoltre passa molte ore leggendo e traducendo dal tedesco allo slovacco. Quando ne ha la forza, istruisce i bambini per la Prima Comunione.

Spesso risuona nel paese il suono dell’autoambulanza e tutti sanno che Jan viene trasportato d’urgenza all’ospedale di Skalica. La gente del suo paese si ferma ogni volta, tutti gli vogliono bene. La polizia segreta continua a spiarlo e in un rapporto si legge: “Non si può dire che la pena inflitta abbia raggiunto il suo scopo”.

Jan Havlik muore nel 1965 all’età di 37 anni, a Skalica, dove era andato a cercare lavoro “per non essere di peso alla famiglia”. Nella festa del suo santo patrono, Giovanni Evangelista, lo hanno trovato agonizzante in una via di Skalica appoggiato a un muro.

Nel suo paese, per la sua amabilità e cordialità, si diceva “a Janko non si può dire di no”. Dopo la sua morte, la gente continua a pregare sulla sua tomba. Qualche anno dopo, un ragazzo alcolizzato e ormai in piena cirrosi epatica va sulla tomba e gli chiede aiuto. Poche ore dopo sente di non aver più bisogno dell’alcool e pochi giorni dopo i medici dicono che è guarito. Da allora gruppi di Anonimi alcolisti e di madri che hanno figli dipendenti da droghe, alcool e ultimamente giochi, vanno a pregare sulla sua tomba.

La devozione nei suoi confronti non si è mai assopita perché “A Janko non si può dire di no”.

 

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