Jannacci, Testori, Gaber: le periferie del nostro cuore è l’incontro che si tiene lunedì 21 agosto in Sala Neri Generali-Cattolica al Meeting di Rimini dedicato a tre anniversari che legano altrettanti protagonisti della vita milanese: i 100 anni della nascita di Testori, i 20 e i 10 rispettivamente della morte di Giorgio Gaber e Enzo Jannacci. Partecipano Andrea Mirò, cantautrice, con diversi dischi e altrettanti Festival di Sanremo, in questi ultimi anni impegnata a riproporre diversi spettacoli di Gaber e Luporini; Giuseppe Frangi, giornalista, responsabile dell’Associazione Culturale Casa Testori e della gestione delle opere del grande scrittore, oltre che suo nipote; Michelangelo Maccagno, attore di teatro, cinema e tv, da più di vent’anni in carriera con registi come Luca Ronconi, Claudio Longhi, Carmelo Rifici, Federico Tiezzi, Damiano Michieletto e dal 2015 premiato interprete di Testori con SdisOrè per la regia di Gigi Dall’Aglio (che gli ha fruttato nel 2017 il premio Franco Enriquez); Paolo Jannacci, pianista, compositore, arrangiatore, cantante e figlio del grande Enzo.
Perché un titolo come Jannacci, Testori, Gaber: le periferie del nostro cuore? Perché sono stati tre grandi artisti (tre grandi milanesi detto con un po’ di orgoglio) ma anche tre grandi sensibilità umane che hanno segnato la nostra cultura. In questo incontro vengono affrontati con una precisa chiave di lettura che forse non li esaurisce ma che però li ha segnati profondamente: il racconto della periferia, dell’altra parte della città, quella che nessuno vede e che non viene mai voglia di visitare o di andare a cercare; figurarci se addirittura, come è avvenuto per questi tre grandi, addirittura cantarla, cantare la periferia come la periferia del cuore: anzi cantare la periferia come vero, autentico cuore della città.
Il boom economico e le periferie
L’Italia alla fine degli anni ‘50 iniziò a crescere in maniera vertiginosa: tra il 1958 e il 1963 il prodotto interno lordo italiano si attestò su un incremento del 6,3% annuo, inferiore solamente a quello tedesco, ottenendo un record mai ottenuto prima nella storia dello Stato unitario. La produzione industriale risultò più che raddoppiata, mentre le esportazioni aumentarono mediamente di circa il 14% all’anno. Nell’ambito dell’economia europea, l’Italia nel 1965 giungeva a coprire il 12% della produzione continentale, appena sotto Francia, Inghilterra e Germania. A spingere, all’inizio, anche il basso costo dei salari (anche se salari dal 1950 al 1960 aumentarono del 142% e fra il 1962 e il 1963 ci fu una massiccia ondata di scioperi conclusasi con un aumento delle retribuzioni di oltre il 14% nell’industria manifatturiera) e la grande disponibilità di manodopera: un enorme processo di trasferimento della popolazione dal Sud al Nord, attratti dalle possibilità di lavoro offerte dalle industrie del centro-nord in espansione. Tra il 1951 e il 1961 quasi due milioni di persone abbandonarono il Mezzogiorno.
Nel quadriennio 1960-1963 il flusso migratorio dal Sud al Nord raggiunse il totale di 800mila persone all’anno. Milano nel 1970 raggiungerà il suo record d’insediamenti, con quasi 1,7 milioni di abitanti, crescendo del 37% rispetto al 1950. Altro simbolo decisivo la metropolitana: nel 1955 il Comune e, successivamente, il Ministero ne approvano gli studi progettuali. I lavori di costruzione hanno inizio il 12 giugno 1957 e, come Londra, Parigi e New York, anche Milano inaugura la prima linea sotterranea, il 1° novembre 1964: 12 km di rotaie che collegano la stazione di piazzale Lotto a quella di Sesto Marelli, passando per Piazza Duomo. Un boom cui segue un forte sviluppo edilizio. Alcuni edifici sarebbero diventati il simbolo della modernità in tutto il mondo: la Torre Velasca (BBPR, 1956-8), il Grattacielo Pirelli (Giò Ponti, 1956-61), il Padiglione d’arte Contemporanea (Ignazio Gardella, 1951-4).
Ma dietro questo innegabile fascino c’è lo sviluppo selvaggio di nuovi quartieri, di nuove periferie. A guidarlo sono piccoli e grandi gruppi immobiliari che, speculando su ampie porzioni di terreno agricolo alla periferia della città, lo trasformano in terreno edificabile su cui dare il via a una costruzione massiva di immobili da abitazione. Uno scrittore dotato (La vita agra) e acuto quanto polemico e autodistruttivo come Luciano Bianciardi, che fu molto vicino a Jannacci a metà dei 60, arrivò a scrivere: “Milano non è una città, non è un paese, non è niente. È solo una gran macchina caotica, senza cielo sopra e senza anima dentro. Andrebbe minata”. Giovanni Testori si descriveva così: “Quando ho detto che sono nato nel 1923 a Novate, cioè alla periferia di Milano, dove da allora ho sempre vissuto e dove spero di poter vivere sino alla fine, ho detto tutto”. Nel settembre 1942 si iscrive, dietro insistenza del padre, che non rinuncia all’idea di vederlo impiegato nell’azienda di famiglia, alla facoltà di architettura del Politecnico di Milano, dove frequenta il primo anno sostenendo gli esami di corso.
La vocazione artistica di Testori
Testori dunque nasce “borghese”, con un destino segnato. Da dove nasce la sua vocazione artistica, crescendo in quel contesto? Cosa c’entra la sua passione per l’arte, per la pittura? E perché dopo guarda altrove, al mondo e alle storie di periferia? Preceduto dal memorabile Il dio di Roserio, edito da Elio Vittorini nei Gettoni Einaudi nel 1954, il ciclo I segreti di Milano, per Feltrinelli, raccoglie l’intero ciclo dei suoi testi narrativi e teatrali composto dal 1958 al 1961, Due raccolte di racconti: Il ponte della Ghisolfa (Il dio di Roserio sarà rivisto per inserirlo qui e il film Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1960, vi è liberamente ispirato) e La Gilda del Mac Mahon; due testi teatrali, La Maria Brasca e L’Arialda, e un romanzo, Il Fabbricone, la storia d’amore di una Giulietta democristiana e un Romeo comunista sullo sfondo di un grande caseggiato popolare a Vialba.
E’ il grande affresco della periferia milanese negli anni del boom economico, a cavallo fra anni Cinquanta e Sessanta, che si interruppe tuttavia bruscamente dopo l’uscita del Fabbricone (Nebbia al Giambellino, scritto all’inizio del 1960 e pubblicato postumo dall’editore Longanesi nel 1995 dopo il ritrovamento, tra le carte dell’autore, forse può essere considerato il romanzo conclusivo del ciclo I segreti di Milano). Testori porta in scena la vita dei ceti bassi, il bisogno impellente di uscire dalla miseria, di sbriciolare la mediocrità, il desiderio irrefrenabile di una vita migliore. Storie per la maggior parte ambientate nelle aree nordoccidentali di Milano fra la Ghisolfa, Roserio, Villapizzone, Vialba e la Bovisa, e più in là fra Bresso, Sesto e i paesi dell’hinterland, dove andavano gonfiandosi velocemente grosse sacche di povertà.
Gaber cerca la sua strada
Parallelamente Giorgio Gaber, nato musicalmente fra jazz, country western e rock & roll, dopo aver inaugurato per la musica leggera, a 19 anni con Ciao ti dirò nel 1958 (insieme alla Medea di Maria Callas alla Scala per la classica) la Dischi Ricordi, nei primi anni 60 cerca una strada diversa, dopo aver formato con un certo Enzo Jannacci il duo I due corsari. E la trova in Umberto Simonetta, scrittore di romanzi e racconti ma anche autore per il teatro di rivista, le canzoni e l’intrattenimento radiotelevisivo (lo stesso autore si definiva tra orgoglio e amarezza “uno scrittore minore lombardo del XX secolo”). Negli anni sessanta scrive alcuni romanzi: Lo sbarbato (un’amicizia a cavallo tra gli anni 50 e 60 tra un ragazzo di buona famiglia e un ladruncolo. Tra locali malfamati e vie oggi irriconoscibili, i due protagonisti, l’uno l’opposto dell’altro, stringono un forte legame che li spinge a cambiare la propria vita), Tirar mattina (Einaudi 1963. Il trentatreenne Aldino, protagonista del racconto tutto in una notte, la mattina dopo comincerà a lavorare in officina, ma alla fine si presenterà ubriaco e lo licenzieranno. È un ragazzotto che non ha voglia di assumersi le proprie responsabilità, e di diventare grande in una città moderna e alacremente operosa) Il giovane normale (1967. Giordano Sangalli, un “giovane normale” e squattrinato, parte da Milano in autostop per raggiungere Venezia, dove con un amico proseguirà poi per l’Austria. Viene caricato da un bizzarro trio di americani: una coppia “aperta” e un loro amico gay. Questi sono diretti in Grecia, per poi tornare in Italia. Giordano, desideroso di fare nuove esperienze si unisce a loro, non diventando altro che il loro oggetto di svago. Insomma il mito del viaggio come sogno di libertà, mezzo illusorio per affrancarsi dalle responsabilità quotidiane, e l’infrangersi delle illusioni di un figlio della piccola borghesia urbana del boom economico, da quest’ultimo sarà tratto, nel 1969, l’omonimo film di Dino Risi con Lino Capolicchio e Janet Agren).
Negli stessi anni Simonetta collabora con Paolo Villaggio in tv alla creazione dei personaggi di Giandomenico Fracchia e di Ugo Fantozzi. Nel 1976 sarà fra gli autori della trasmissione televisiva Televacca, poi ribattezzata Onda Libera, in cui debutta il giovane Roberto Benigni. Questo è lo scrittore e l’autore che Gaber incontra a Milano.
I due corsari
La collaborazione comincia anche con Jannacci, con I due corsari in Una fetta di limone (1960), e poi con il solo Giorgio Gaber, per il quale il Simonetta paroliere scrive testi di canzoni storiche come La ballata del Cerutti (1961), Trani a gogò (1962), Le nostre serate (1963), Porta Romana (1963), Barbera e champagne (1969), Il Riccardo (1968). Sono un racconto della periferia milanese ma in forma popolare (qualcuno sbagliando ha detto macchiettistica) che parla a tutti, tanto che il Gaber più impegnato dei decenni successivi, quello del Teatro Canzone degli anni 70, dopo due ore di canzoni e monologhi teatrali molto complicati, non disdegnava di farne almeno un paio come bis, solo voce e chitarra.
E in fondo lo faceva volentieri. Anche Gaber, quando scopre le periferie insieme allo scrittore Simonetta, le musica, le fa diventare sue, è uno che viene da un mondo perbene. Si diploma ragioniere nel 1958, e se in estate parte per Genova dove trascorre la stagione estiva suonando nei locali da ballo in un trio basso-chitarra-pianoforte con Luigi Tenco, sperimentando per la prima volta le sue doti di cantante, in autunno si iscrive all’Università Bocconi di Milano. Poi la musica prenderà il sopravvento.
Jannacci, medico e artista
Siamo arrivati ad Enzo Jannacci. Se vi capita di andare a trovarlo al Famedio, le tombe dei milanesi importanti ospitate al Cimitero Monumentale, lo troverete accanto al suo amico Gaber con una scritta: “Enzo Jannacci. Medico e artista”. Perché quella definizione? Ha a che fare col nostro percorso di stasera sulle “periferie del cuore”? Cosa stava davvero a cuore a Enzo, il suo mestiere di medico che si china su chi ha bisogno o quello di artista (uno di cui il più grande dei musicisti italiani viventi, Paolo Conte, ha detto: “Lui è il padre assoluto, è uno che ha annusato in profondo, è andato alle radici della musica antica e l’ha difesa; ha introdotto parole realistiche, non si è mai posto problemi dichiarativi, è entrato da musicista e ha regalato una purezza da far stringere il cuore.”)?
Stranamente anche lui, venendo da un altro mondo, guarda alle periferie. Dopo aver terminato nel 1954 gli studi liceali presso il liceo Scientifico “Leonardo da Vinci”, si diploma in armonia, composizione e direzione d’orchestra al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. Poi nel 1969, si laurea in medicina all’Università di Milano. Per ottenere la specializzazione in chirurgia generale si trasferisce in Sudafrica, entrando nell’équipe di Christiaan Barnard, primo cardiochirurgo a realizzare un trapianto cardiaco. La sua formazione ha compreso anche studi presso la Columbia University di New York (dove si è occupato anche di terapia intensiva e chirurgia toracica) e successivamente al Queens College.
Un medico chirurgo, raccontano i colleghi, sempre pronto a ricercare il rapporto umano con il paziente, dimostrando interesse per la salute di chi era finito sotto i suoi ferri ben oltre il periodo pre e post operatorio. Come medico di famiglia, ambulatorio a Città Studi a Milano non lontano da dove risiedeva, Jannacci ebbe pochi pazienti perché non ne voleva di più di quelli che riusciva a visitare: non più di due al giorno volendo essere scrupoloso il giusto, proprio per non trascurare nulla. E all’ambulatorio, carriera artistica o no, fu fedele fino alla pensione. E le canzoni? Il primo Jannacci “in canzone”, al netto degli studi classici di pianoforte e alla sua predilezione speciale per il pianista jazz nero Bud Powell, è surreale, diverso da tutti. Alle canzoni sulla periferia Jannacci arriva dopo il suo amico Gaber, con cui “giocava” da ventenne a fare i primi dischi del duo I due corsari.
Giocavano al rock & roll ma anche alla canzone “demenziale”, avremmo detto oggi: Birra, 24 ore, Tintarella di luna, Dormi piccino, Una fetta di limone, ma anche poi arrivano quelle scritte in proprio come L’ombrello di mio fratello, Il cane con i capelli, Bambino Boma, Gheru gheru. Poi, nella primavera del ’64, come un fulmine a ciel sereno arrivano due canzoni grandissime: El portava i scarp del tennis e Ti te se’ no, primo 45 giri, una per facciata, ufficialmente prodotto da Nanni Ricordi, incontro decisivo nella sua storia.
Perché, per un milanese ma non di madre lingua ma di origine pugliese, usare il milanese, che allora era forte in città ma forse non parlata in famiglia? Ecco, preparando questo incontro ho capito una cosa: quello del racconto dei “poveri cristi”, dei tagliati fuori in periferia, sarà un fil rouge che durerà tutta la carriera di Jannacci, a differenza di Gaber e Testori che prenderanno altre strade. Chiudiamo il nostro percorso con un inizio. Abbiamo prima citato il fruttuoso incontro fra Giorgio Gaber e Umberto Simonetta nei primi anni 60.
L’ultima canzone che si ascolterà in questa serata è invece la prima che testimonia l’incontro felice fra Gaber e un amico pittore viareggino, Giorgio Luporini, incontrato a Milano alla fine degli anni 60. Il primo pezzo importante che scrivono insieme, del 1969, alla vigilia del debutto del primo spettacolo di Teatro canzone, Il Signor G, che su impulso di Paolo Grassi arriverà al Piccolo Teatro, è Come è bella la città, paradossale lode della grande città e della nuova Italia, perché “Se tu vuoi farti una vita/Devi venire in città”. Ne seguiranno trent’anni di spettacoli, trent’anni di “teatro d’intervento”, che hanno segnato la nostra cultura.
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