L’importante, nella vita, è essere felici. E se non ci si riesce – perché, diciamo la verità, il destino è spesso duro ed esserlo davvero rasenta la santità –, almeno sentirsi a posto con la propria coscienza, così da guardare il mondo con occhi sereni e privi di rancore. Jasmine Paolini lo aveva detto poche ore prima della finale di Wimbledon: “Sia che vinca, sia che perda, voglio sentirmi felice”. Giocare non per i soldi o la gloria (anche, perché no?), ma per il cuore. La campionessa toscana – padre italiano, madre polacca, un nonno ghanese: la geografia dello sport non ha confini, per fortuna – ha perso a testa alta contro la ceca Barbora Krejcikova, numero 2 del mondo, in tre set la partita clou del torneo di tennis più prestigioso del mondo (6-2, 2-6, 6-4), ma al di là della lotta condotta quasi ad armi pari, ha saputo regale un’immagine di sé che ha fatto scoprire un modo elegante di praticare sport ad altissimi livelli. Rispettoso dell’avversario, consapevole dei propri limiti, scevro da cadute di stile. E con in più un bel sorriso sulle labbra.
“Congratulazioni a Barbora perché gioca un tennis così bello” ha detto al momento della premiazione la prima italiana della storia a raggiungere il traguardo della finale sull’erba di Church Road. Ammetterlo pochi minuti dopo la sconfitta, aggiungendo un meraviglioso “presto tornerò a sorridere”, vale quantomeno concederle l’onore delle armi in una disciplina di antico lignaggio che in Italia sta conoscendo un revival impensabile soltanto un paio di anni fa, e che le vittorie di Sinner hanno contribuito a rilanciare in chiave azzurra. Anche il tennista altoatesino, sempre sorridente, ha manifestato più volte la stessa idea di giocare “per vincere, sì, ma prima di tutto per essere felice”.
Come proseguiranno le carriere e le stesse esistenze tout court di Jasmine e di Jannik non possiamo saperlo. Se cioè manterranno nel tempo le promesse che si sono fatte di volare leggeri anche in mezzo ai trionfi oppure se le tradiranno in una disciplina che, come ricorda André Agassi, “usa lo stesso linguaggio della vita: vantaggio, servizio, errore”. Intanto, però, ci stanno regalando un’idea di sport lontana dagli stereotipi da prime donne – o da primi uomini – di chi “non deve chiedere mai” di cui strabocca soprattutto (ma a volta non solo) il professionismo, nostrano o internazionale.
Perché se è naturale che si giochi per vincere più che per partecipare (a certi livelli, de Coubertin rimane solo un ricordo romantico), è molto più importante vivere per essere felici. O almeno provarci, anche con una racchetta in mano.
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