Jason Dupasquier, il giovanissimo pilota di Moto3 che era rimasto coinvolto in un grave incidente nelle qualifiche di sabato, è deceduto all’ospedale Careggi di Firenze: nonostante l’intervento, le sue condizioni erano apparse subito disperate. Il terribile incidente era avvenuto nel finale della sessione di qualifiche della Moto3. Dupasquier era stato investito dalla sua moto e poi da altri due piloti, Sasaki e Alcoba, che non hanno potuto evitarlo.



Di fronte a questa tragedia sono mille le domande e le riflessioni: la sicurezza, i limiti di uno sport che spesso vengono superati per entusiasmare il pubblico, la giovane età della vittima, il dolore di una morte così dopo due anni di pandemia e tanti morti per la malattia. Si può morire per sport? Si può morire perché si va in moto?



Sembrano domande retoriche ma sono le domande vere. Il motociclismo, l’automobilismo sono sport sempre più sicuri ma rimangono sport dove la morte non è una possibilità remota. È possibile che questo accada ancora? È agghiacciante guardare video in cui giovanissimi antagonisti di Jason – sto pensando a Dennis Foggia, il trionfatore della gara nelle cui prove Jason è morto – apprendono della morte del loro amico e senza un attimo di esitazione decidono di continuare, una smorfia di commozione attraverso il loro volto ma poi tutto rimane uguale. Io non posso fare nulla se non porre con urgenza la questione morale, chiedere se tutto ciò è lecito in una prospettiva che sia più grande di quella di un gran premio.



Tra tutte le riflessioni una mi sconvolge ancor più profondamente. Dupasquier era giovanissimo. Le sue prime esperienze in moto sono arrivate a partire da quando aveva cinque anni. E questo avviene ovunque. L’età dello sport agonistico, delle gare, diminuisce e si abbassa quindi drammaticamente l’età in cui dei genitori decidono se un bambino, il loro bambino, può essere una promessa e un campione. A cinque anni si è bimbi e a quell’età dei bambini con le loro famiglie devono decidere se votare la propria vita allo sport. Significa rinunciare da piccolissimi a tutto. Alle amicizie, a un percorso scolastico serio, alla famiglia. Le pressioni sono enormi e i livelli per assurgere al gotha dello sport sono sempre più alti, competitivi, proibitivi.

Questa morte così assurda deve farci riflettere. Ci deve far fermare. Forse è il caso di rallentare. Per lo meno decidiamo di dare ai bambini il tempo di decidere. Di vivere. Di capire che arrivare primi a ogni costo non può essere l’impronta di una vita intera. Proprio non può. È così difficile dire che è immorale?

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