Il 19 ottobre 1984 il trentasettenne prete polacco Jerzy (Giorgio) Popiełuszko, “cappellano” del sindacato Solidarność, viene rapito, torturato e assassinato da tre agenti del Servizio di sicurezza del ministero degli Interni dello Stato comunista. Ordinato presbitero nel 1972 dal Primate di Polonia, il cardinale Stefan Wyszyński, da sempre vicino alla gente comune e agli studenti universitari dall’agosto 1980, su richiesta del medesimo si rende disponibile a celebrare la Messa domenicale per migliaia di operai scioperanti delle acciaierie di Varsavia. A partire dal febbraio 1982 celebra l’ultima domenica di ogni mese nella chiesa di San Stanislao Kostka a Varsavia le “Messe per la Patria”, fino ad allora celebrate dal suo parroco e su sua richiesta, alle quali accorrono migliaia di persone da tutta la Polonia e che vengono trasmesse dalla nordamericana “Radio Free Europe”.



Nelle sue omelie padre Jerzy parla da cuore a cuore, all’orante assemblea convenuta, della Via Crucis di Cristo e della croce della tormentata nazione polacca. Parla di cultura, sofferenza, dignità, educazione, verità, giustizia, speranza, solidarietà, amore, coraggio, amor di patria – difendendo coraggiosamente la libertà religiosa e di opinione a fronte dell’autoritarismo repressivo del regime comunista. Così ebbe a dire una volta riguardo ai frutti del proprio ministero sacerdotale: “La gente, dopo molti anni, spesso più di dieci, acquista il coraggio di venire da me a chiedere la riconciliazione con Dio, la Confessione e la Comunione. […] Molto spesso il processo di conversione, del ritorno a Dio, alla Chiesa o in generale la scoperta di Dio comincia dall’adozione di un atteggiamento patriottico” (cit. da C. Smuniewski, La missione del sacerdote nel pensiero del beato don Jerzy Popiełuszko, in The Person and the Challenges, vol. 3, 2013, n. 2, pp. 161-162).



Perché l’hanno ucciso? Lasciamo che a rispondere sia don Francesco Ricci (1930-1991), fondatore del Centro Studi Europa Orientale (CSEO), profondo conoscitore della Chiesa e della cultura polacca. Padre Popiełuszko, afferma Ricci senza sentimentalismi, è uno di quei “cavalieri dell’ideale, per i quali la paura non ha cittadinanza nella vita né conoscono l’arte clericale del compromesso prudente o dell’accomodamento tiepido”. Dal volto e dalla vita di questo giovane prete promana il fascino della “piena verità dell’uomo: la sua origine in Dio, l’appartenergli come significato dell’esistenza, il suo finale destino di gloria nella pienezza di Dio, tutto in tutti”.



“Il motivo di quella morte – prosegue Ricci –, il perché l’hanno ucciso, non trova risposta nelle ragioni politiche del potere e in nessun’altra ragione di questo mondo, ma solo nell’odio verso l’uomo che sale dalle regioni infernali da cui ha origine il male. La sua morte, dunque, è un mistero. Solo chi ama il bene può intenderlo. I periti hanno concluso la loro autopsia con una sentenza agghiacciante: morto per soffocamento. Il sangue gli ha chiuso la gola, impedendogli il respiro. Se oltrepassiamo l’orrore che l’immagine di questa morte induce, vi scorgiamo la traccia ininterrotta nella storia del sangue dei giusti, dal sangue di Abele e dei profeti a quello di Giovanni Battista, dal sangue di Cristo a quello del santo vescovo Stanislao e di Massimiliano Kolbe. Perché il potere di questo mondo ha così sete del sangue di queste sue vittime, che pur giudica ‘nullità superflue’, ‘relitti del passato’, ‘accattoni dell’irrealtà’? Chi ha paura, l’assassino, o la vittima? Il potere proclama con tronfia arroganza: la realtà sono io! e deride il profeta dipingendolo come ‘un epifenomeno della storia’. Ma questa è solo una volgare mascherata: se l’uccide è perché lo teme, e lo teme perché dice la verità. Se il potere ha paura della verità, è perché è figlio della menzogna. Il dialogo tra Cristo e Pilato è l’unico dialogo reale che si svolga nella storia umana. E sempre si conclude con una sentenza di morte a carico del testimone della verità. Quel giovane prete diceva la verità, per questo lo hanno temuto, lo hanno perseguitato e alla fine lo hanno ucciso” (F. Ricci, Un cavaliere dell’Ideale, in J. Popiełuszko, Omelie per la Patria, CSEO, Bologna 1985, pp. 5-7).

“Per preparare la sua morte – scrive don Ricci – e poi legittimare il loro delitto, lo avevano accusato di tenere in vita con l’artificio della parola e la cospirazione dei contatti segreti quello che il Palazzo considerava ‘il cadavere di Solidarność’. Insinuavano contro di lui sospetti, accuse, calunnie. Volevano fargli il vuoto intorno, così che la sua scomparsa potesse passare inosservata. Mentendo, lo accusavano di cogitare misfatti contro lo Stato, il partito e le alleanze. Fingevano di crederlo un pericoloso nemico, alleato di nemici più pericolosi ancora. In realtà, cercavano solo di scaricargli addosso le loro paure, non di lui, ma di loro stessi compagni, capi e gregari, alleati e padroni. Sapevano, o certo che lo sapevano, che la solidarietà di cui s’era fatto il ‘cappellano’ era quella dei cuori, quella che gli uomini del lavoro vivono nelle loro famiglie, nelle fabbriche; quella di cui avevano fatto esperienza i detenuti nei campi d’internamento dopo il colpo di Stato del 13 dicembre 1981; quella che appartiene da mille anni alle radici cristiane della cultura nazionale e la Chiesa insegna incessantemente alle generazioni. Lo sapevano bene, visto che non perdevano una parola delle sue omelie; e se fossero stati coerenti con la loro ideologia, se avessero davvero creduto di essere quello che dicono – l’avanguardia storica della classe operaia che ha conquistato il potere – non avrebbero dovuto curarsi troppo di questo giovane e incauto oppiatore del popolo, vittima della sua stessa illusione religiosa. Lo sapevano bene a Varsavia e a Mosca, ma la loro paura li ha accecati, affinché si compisse ancora una volta la parola: ‘Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno’” (ivi, pp. 11-12).

Quest’uomo ha testimoniato con il suo martirio che la dignità dell’uomo non può essergli mai strappata, nemmeno da chi s’ingegnasse in ogni modo di attentare ad essa ordinando a tre agenti della polizia di Stato di massacrare sadicamente in pochi minuti un giovane prete, sfigurandogli il volto al punto da renderlo (volutamente) irriconoscibile, per gettarlo infine nel lago artificiale nei pressi di Włocławek, legato ad un sacco pieno di sassi.

La tomba del beato Jerzy Popiełuszko, posta nel giardino della parrocchia di San Stanislao Kostka a Varsavia, è stata visitata da oltre venti milioni di pellegrini provenienti da centoquaranta Paesi. Al pellegrino che sosta in silenzio dinanzi alla tomba del martire di Cristo e visita il museo-memoriale a lui dedicato – che custodisce, tra l’altro, le fotografie del ritrovamento del corpo, del suo volto cianotico, le corde, la mazza, i sassi usati per perpetrare l’efferato omicidio – sovvengono le parole del poeta: “Es tu carne vencida, rota, pisoteada, / la que vence y relumbra sobre la carne nuestra” (“È la Tua carne vinta, distrutta, calpestata / che vince e riluce sopra la carne nostra”: F. García Lorca, Oda al Santísimo Sacramento del Altar – Carne).

Poche ore prima d’essere ucciso, il venerdì sera del 19 ottobre 1984, il padre Popiełuszko, recatosi nella parrocchia dei “Santi fratelli martiri polacchi” a Bydgoszcz, aveva tenuto una meditazione durante la preghiera dei misteri dolorosi del santo Rosario: a quarant’anni di distanza le sue parole non hanno perso minimamente il loro peso, né il loro potere di risvegliare il cuore e la coscienza, non solo dell’uomo europeo. Sono il suo testamento spirituale, un’intensa, pacificata meditazione sulla dignità dell’uomo da parte di un uomo mite, disarmato, coraggiosamente vittorioso sul male e sulla menzogna. Ancor oggi queste parole pesano molto di più dei sassi con cui venne torturato e a cui il suo corpo venne legato:

“Bisogna vivere con dignità la vita perché ne abbiamo una sola. Oggi è necessario parlare molto della dignità dell’uomo per rendersi consapevoli che l’uomo supera tutto quanto può esistere al mondo, ad eccezione di Dio; supera la sapienza del mondo intero. Salvaguardare la dignità per poter rendere più grande il bene e vincere il male.

Salvaguardare la dignità per poter rendere più grande il bene e vincere il male, cioè, improntare la vita alla giustizia.

La giustizia è frutto della verità e dell’amore. Più c’è verità e amore nell’uomo, più c’è giustizia. La giustizia deve camminare di pari passo con l’amore, perché, senza l’amore, non è possibile essere pienamente giusti. Dove l’amore e il bene mancano, al loro posto subentrano l’odio e la violenza, e se ci si lascia guidare dall’odio e dalla violenza non è possibile parlare di giustizia.

Vincere il male con il bene, cioè, mantenere la fedeltà alla verità. La verità è una proprietà molto delicata della nostra intelligenza.

Il desiderio della verità è stato istillato nell’uomo da Dio stesso, perché nell’uomo c’è il naturale desiderio della verità e il rifiuto della menzogna.

La verità, proprio come la giustizia, è legata all’amore, e l’amore costa caro. Un amore vero è capace di sacrificio e quindi anche la verità deve costare. La verità mette sempre insieme gli uomini.

Ma per vincere il male con il bene bisogna premunirsi della virtù del coraggio. La virtù del coraggio rappresenta la vittoria sulla debolezza umana, in particolare sulla paura. Il cristiano non deve dimenticare che si deve aver paura solo di tradire Cristo per i trenta denari di una meschina tranquillità. Il cristiano non può accontentarsi solo di respingere il male, la menzogna, la codardia, la violenza, l’odio, la prevaricazione, ma deve lui stesso essere un vero testimone, un portavoce e un difensore della giustizia, del bene, della verità, della libertà e dell’amore. Deve rivendicare con coraggio questi valori per sé e per gli altri” (J. Popiełuszko, Ultime parole prima del martirio, in Omelie per la Patria, cit., pp. 103-104).

Così un uomo ricevé dagli uomini la somma onorificenza di Cavaliere dell’Ordine dell’Aquila Bianca, dal Re dei martiri – sotto la protezione delle Sue ali – la palma del martirio.

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