Quando si parla di “cambiamento d’epoca” subito pensiamo ai nostri tribolati giorni di questo secolo che già nei suoi primi vent’anni ci sta dando dei seri grattacapi tra pandemie e inaspettate guerre europee. Ma noi “baby boomer” un cambiamento d’epoca l’abbiamo già vissuto in diretta, almeno per quanto riguarda il fenomeno musicale che ha rivoluzionato l’intera seconda parte del novecento: la musica rock.
Una rivoluzione musicale che andava a braccetto (causa ed effetto, contemporaneamente) con lo sconvolgimento dei costumi sociali preteso dalle giovani generazioni. La nuova musica travolse anche le certezze delle regole religiose (specie quella cristiana, considerata quella più opprimente da parte della vecchia generazione) intaccando anche i tradizionali canoni della narrazione evangelica.<
È il caso di “Jesus Christ Superstar”, la colonna sonora del film che compie in questi giorni mezzo secolo dalla sua pubblicazione; in Italia, da sempre periferia dell’impero, non essendoci a quel tempo la contemporaneità delle piattaforme digitali, arrivò un anno dopo, insieme al film.
Il musical teatrale, che segue le vicende degli ultimi giorni terreni di Gesù, debuttò invece esattamente nel 1970. Ideato da due giovanissimi autori britannici: Andrew Lloyd Webber (musica) e Tim Rice (libretto). Tra gli interpreti un posto di rilievo lo aveva il Cristo, con la voce e la figura di Jan Gillan, popolarissimo frontman dell’esplosivo gruppo rock-blues inglese dei Deep Purple. Il successo teatrale fu così fulmineo e travolgente, tanto che dall’altra parte dell’oceano, l’industria cinematografica volle celebrarlo portandolo sugli schermi di tutto il mondo, con una versione nuova di zecca. Il rock si appropriava della millenaria narrazione evangelica, offrendola alla generazione “hippy”, stravolgendone ogni canone tradizionale.
Indiscutibilmente, Webber aveva composto e assemblato una sarabanda di canzoni forse ad oggi ancora insuperabile. Motivi e atmosfere che racchiudevano tutto lo scibile dell’allora storia del rock e del pop conosciuta: dall’irruente riff chitarristico del funky iniziale con l’entrata in scena di Giuda alle avvolgenti melodie pop della pensosa Maddalena, dal gospel che accompagna Cristo alle porte di Gerusalemme nel tripudio di popolo agitando rami di palme alla travolgente sequenza rock sinfonica a sottolineare i tormenti del Nazareno nel Getsemani e il successivo supplizio dopo l’arresto, per finire con il brano iconico, forse troppo banalizzato dai reiterati ascolti nelle hit parade mondiali.
Insomma, un vero capolavoro, ancora ineguagliato dallo stesso autore nelle sue successive opere; destinato a essere riascoltato e ricantato a memoria da noi, a quel tempo, poco più che adolescenti, (a “loop” si direbbe oggi) sul nostro giradischi di casa (magari quello stereo, appena comprato dai genitori).
Il film non ebbe minore impatto sul nostro immaginario: inizialmente dovette subire un certo ostracismo dagli ambienti cattolici tradizionalisti, allarmati da chissà quale blasfemia. Al netto di limiti evidenti (la figura di Gesù spogliata dalla sua origine divina, l’assenza della figura della Madonna, qui la figura femminile predominante è quella della Maddalena, non scevra da polemiche) la narrazione ha diversi punti di forza; sia tecnici: l’interpretazione dei debuttanti Ted Neely (Gesù), Carl Anderson (un Giuda di colore), l’orchestra, diretta dal celebrato André Previn e la regia del navigato Norman Jewison, ma soprattutto per aver saputo coniugare il rispetto per la grande storia narrata dai vangeli, con le problematiche sensibilità delle nuove generazioni, colme di un’ansia di cambiamento, ma forse ancor più desiderose di un messaggio di positività.
Ecco che musica, immagini, azione in questo film si integrano a meraviglia. Siamo ai giorni nostri, nella Palestina già percorsa dalla guerra di contesa dei territori, un gruppo di attori vogliono rappresentare l’avventura umana di Cristo, percorrendo le tappe degli ultimi giorni di vita di quell’uomo così decisivo per il popolo ebraico tra pulsioni politiche delle quali Giuda si fa portatore fino al suo sconvolgente fallimento esistenziale e il potere corrotto dei sacerdoti collusi con l’occupatore imperiale romano. Rimangono nella mente e negli occhi episodi come l’irruzione di Cristo contro i mercanti nel Tempio, per poi essere sommerso da una calca di malati e lebbrosi (come non ricordare il passo delle Sacre Scritture che parla di Gesù come colui che si è addossato tutti i nostri peccati), e ancora il drammatico duello tra l’umanità straziata e l’obbedienza al Padre, nell’Orto degli ulivi. La lunga sequenza delle frustate (quasi un’anticipazione della violenza senza censura nella “Passione” di Mel Gibson, molti anni dopo), le ultime parole di abbandono e di affidamento affinché tutto si compia inchiodato alla croce (le uniche parole non cantate).
Si, è vero: manca la risurrezione.
Eppure, alla fine della giornata, alla fine della rappresentazione, i giovani cantanti e ballerini, nel lasciare la scena, prima di salire sul pullman del ritorno, si voltano indietro e fissano il sole là all’orizzonte, e le loro facce sono pensierose, turbate: forse questa non era solo una rappresentazione teatrale, forse c’era qualcosa che in qualche modo la travalicava, aveva a che fare con la propria vita, il proprio desiderio di infinito. Toh… tra di loro non vediamo l’attore protagonista, non si vede più, non c’è con loro al ritorno… forse perché ognuno lo porta dentro di sé.
Grati per esserci stati, loro e noi.
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