È il 19 agosto 2014, uno dei giorni più cupi dell’offensiva del neonato Stato islamico, che in poche settimane ha conquistato vaste zone della Siria e dell’Iraq. Il mondo occidentale lo conosce come Isis, sono spietati islamisti che hanno dichiarato guerra ai musulmani moderati e al mondo occidentale. Compiono stragi, rapiscono e violentano ragazzine riducendole in schiavitù sessuale.



Non hanno alcuna pietà, eppure dicono di agire per conto di Dio, il loro Dio. Quel giorno un video terrificante fa capolino sui social. Si vede un giovane occidentale, subito riconosciuto come il reporter americano James Foley, 40 anni, rapito due anni prima, il 22 novembre 2012, mentre dalla Siria stava tornando in Turchia. Da anni Foley fa il reporter dalle zone di guerra: nel 2011 era già stato rapito in Libia dai sostenitori di Gheddafi e liberato dopo 44 giorni.



Nel video, il giornalista americano è in ginocchio, veste una tunica arancione come quella indossata dai prigionieri islamisti di Guantanamo e in piedi accanto a lui c’è un uomo vestito completamente di nero, di cui si intravedono solo gli occhi. Ha in mano un lungo coltello. Fa una dichiarazione parlando con forte accento londinese, spiega che il giornalista verrà ucciso per colpa dei bombardamenti americani sullo Stato islamico. In realtà, inizialmente era stato richiesto un riscatto di cento milioni di dollari, ma i governi americani non trattano mai con i terroristi e ordinano alla famiglia di Foley di aprire alcun canale. James Foley ha lo sguardo sereno e il capo orgogliosamente alzato, nonostante la situazione. Il video prosegue. Il boia gli taglia la gola. Poi si vedrà il corpo della vittima con la testa mozzata in grembo. È il primo ostaggio americano ucciso in Siria. Il suo corpo non verrà mai trovato.



Diane Foley, la madre di Jim, dirà in seguito che “erano stati avvertiti di non cercare di raccogliere il denaro per pagare un riscatto, perché illegale”: in caso contrario, avrebbero rischiato di essere perseguiti penalmente. “Non siamo mai stati così tanto orgogliosi di nostro figlio. Ha dato la sua vita per raccontare al mondo le sofferenze del popolo siriano” ci ha detto in questa intervista Diane, che ha potuto anche parlare con uno dei custodi di suo figlio, catturato dagli americani, di cui dice: “Non ha mai chiesto perdono”. Lei invece lo ha perdonato: “Se li odio, hanno vinto. Dobbiamo pregare per avere il coraggio di essere l’opposto”.

Dopo che suo figlio era stato rapito una prima volta in Libia, gli ha chiesto di non fare più l’inviato di guerra?

Gli ho chiesto di considerare l’idea di non tornare in Medio Oriente, ma mi disse che quello era il suo lavoro, la cosa che amava di più.

Qual era la sua più grande motivazione nel fare un lavoro così pericoloso?

Un sempre minor numero di giornalisti, a causa dei rischi che correvano, si recava in Siria per documentare quello che stava succedendo. Per lui, il mondo aveva bisogno di sapere cosa stava accadendo.

Il governo americano ordinò alla vostra famiglia di non trattare con i rapitori: vi siete sentiti traditi, abbandonati?

Il governo degli Stati Uniti non ha mai permesso di negoziare direttamente con i terroristi. La nostra famiglia ha voluto provare a negoziare, ma non siamo riusciti a soddisfare le loro richieste impossibili, pretendevano cento milioni di dollari e la liberazione di alcuni loro prigionieri. Quindi, sì, gli Stati Uniti hanno abbandonato quattro ostaggi americani, incluso nostro figlio Jim.

Lei ha avuto modo di parlare a lungo con uno dei rapitori di Jim. È stata lei a chiederlo?

Alexanda Kotey, uno dei foreign fighters dell’Isis che faceva parte del gruppo soprannominato “i Beatles”, responsabili della prigionia e decapitazione di alcuni ostaggi americani, britannici e giapponesi tra cui mio figlio, si era dichiarato colpevole per tutti e otto i capi d’accusa nei suoi confronti, relativi a rapimenti, atti di tortura e uccisioni. Dopo essere stato condannato all’ergastolo, si rese disponibile a incontrare i familiari delle vittime.

So che avete parlato per molte ore: che cosa vi siete detti?

Gli ho raccontato di nostro figlio Jim e lui ha parlato di se stesso e del motivo per cui era andato in Siria per unirsi all’Isis (Kotey e gli altri membri del suo gruppo erano tutti nati e cresciuti in Gran Bretagna, nda). L’ho incontrato in tre giorni diversi per diverse ore ogni volta.

Si è mai scusato o ha chiesto perdono per quello che aveva fatto?

Ha detto che gli dispiaceva per quello che avevo sofferto.

Ha chiesto perdono?

Non ha chiesto perdono, ma gli ho detto che Dio lo avrebbe perdonato, se lo avesse chiesto.

Cosa significa perdonare, per lei? Solo un credente è capace di farlo?

Il perdono è difficile, ma necessario. La fede in Dio e nello Spirito Santo rende possibile ed essenziale il perdono.

Quali certezze o incertezze con il passare del tempo sta vivendo?

Sono certa che Jim sia in pace con Dio.

Il fatto che l’assassino di suo figlio fosse nato e cresciuto in Gran Bretagna, nella cultura occidentale, cosa le fa pensare? Che la nostra cultura ha fallito?

Purtroppo molti odiano gli americani. In parte è davvero colpa nostra, della nostra arroganza e dei nostri errori e in parte potrebbe essere gelosia per la nostra libertà.

Queste persone dicevano di agire in nome di Dio, ma Dio non dovrebbe essere amore? Come può essere usato per fomentare l’odio?

È così triste. Dio piange quando vede accadere questo tradimento del Suo spirito. È colpa della disinformazione e della propaganda. L’islam può e deve essere una religione di pace e amore, come lo è il cristianesimo.

Dopo la prigionia in Libia suo figlio scrisse un articolo in cui dichiarava che recitare il rosario lo aveva aiutato durante la detenzione. Pensa che abbia mantenuto la sua fede fino al momento della sua morte?

La fede di Jim lo ha sicuramente aiutato. Per me la preghiera è “la mia roccia e rifugio!”.

Questo Natale è il primo Natale di guerra in Ucraina. Pensa che il mondo non abbia imparato nulla dalla tragedia di uomini come suo figlio?

Noi uomini lottiamo per amarci e perdonarci a vicenda. La guerra accade, perché abbiamo bisogno di più fede, speranza e amore che diventino atti concreti, che muovano e spingano la gente a cambiare.

Dopo la morte di Jim avete dato vita alla James W. Foley Legacy Foundation. Di cosa vi occupate? È sostenuta dal governo degli Stati Uniti?

Sosteniamo la libertà per gli americani tenuti in ostaggio o ingiustamente detenuti all’estero e promuoviamo la sicurezza dei giornalisti in tutto il mondo attraverso l’istruzione, la ricerca, la riforma delle politiche. La Foley Foundation cerca anche di ispirare il coraggio morale una persona alla volta.

Quali relazioni sono nate dalla memoria di Jim? Quali frutti ha portato il suo sacrificio?

Sono stata introdotta in un mondo a me prima sconosciuto di giornalisti e funzionari governativi, nonché dei meravigliosi amici e colleghi di Jim. Speriamo che la sua eredità diventi una priorità per il ritorno dei nostri cittadini statunitensi innocenti tenuti in ostaggio all’estero e per aumentare il valore e la protezione dei nostri giornalisti.

(Paolo Vites)

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