Non è più la ragazzina hippie e travolgente che si era aperta una strada musicale nei club di New York, città nella quale era giunta dal Kentucky per studiare cinema. In quegli anni, i primi 90, la scena della Grande Mela era animata da alcuni giovani dal sangue ribollente che stavano riportando in auge la grande tradizione rock blues del passato con concerti infuocati. La capitanava il cantante Jono Manson e da lì sarebbero usciti gruppi di successo planetario come Spin Doctors, Blues Traveler e la stessa Joan Osborne, che si lanciò a capofitto in quel ribollente magma di entusiasmo con una voce blues da far scintille.
Il successo mondiale del suo primo album per una major, Relish, guidato dallo stupendo singolo One of us, la catapultò all’attenzione generale tanto da meritarsi l’invito di Luciano Pavarotti a esibirsi con lui al suo festival.
Oggi Joan Osborne è una elegante donna di mezza età che sale sul palco con la classe e l’aurea carismatica di una Billie Holiday per eseguire classici del blues, del folk, insomma il grande spettro della musica americana, portando a sublimazione la sua capacità di interprete con un fascino unico, dosando la voce che ogni tanto ribolle come ai vecchi tempi, ad esempio quando esegue una tiratissima versione di un brano recente di Bob Dylan, High Water (For Charley Patton) o di Muddy Waters (I want to be loved).
Accompagnata da un ensemble che la vede riunita con il vecchio amico e mentore Jono Manson (i teneri sorrisi che si scambiano continuamente sottolineano l’unione spirituale di due persone che hanno cominciato insieme la dura strada del rock’n’roll), il chitarrista, già con Willie Nelson e Ryan Adams fra i tanti, Jon Graboff e l’eccezionale pianista italiano Riccardo Maccabruni, abbiamo dovuto attendere quasi trent’anni per vederla in tour in Italia. Era infatti la sua prima volta e non siamo stati delusi neanche un momento.
Emozionante quando ha eseguito una versione in cui ha accelerato il ritmo flamenco di St. Theresa, lasciandosi andare a passi di danza, semplicemente meravigliosa quando ha riproposto il suo grande successo One of us in una versione lenta e drammatica, sottolineata da una pedal steel che ci faceva intravvedere quel volto di Dio a cui è dedicata la canzone (“Se Dio fosse uno di noi, solo uno sciattone come uno di noi, solo uno sconosciuto sull’autobus che sta cercando la sua strada verso casa?”). Che Joan Osborne non è una hit wonder, benché tutti ricordino One of us, lo ha dimostrato nelle travolgenti versioni di Whole wide world e Take it away, riportandola di schianto ai giorni belli in cui faceva parte del carrozzone neo hippie del festival itinerante HORDE o quando si prestò come vocalist per i Dead, il gruppo che prese l’eredità dei Grateful Dead. I musicisti sul palco si scambiano interplay strumentali scatenati in una danza che vorremmo non finisse mai sotto al suo sguardo benevole.
Il concerto si è chiuso con un’altra perla di Bob Dylan, a cui qualche anno fa dedicò un intero disco, una deliziosa e folk Buckets of rain, poi Joan è scomparsa come una santa cosmica, come una Teresa leggiadra e impalpabile.
La serata si era aperta con un breve ma intenso set di Jono Manson in cui ha presentato una sua bellissima nuova composizione, Coney Island Serenade, autentica poesia metropolitana.
Un grazie quindi al promoter Andrea Parodi che finalmente l’ha portata in Italia per un lungo tour e all’amministrazione comunale comasca che ha concesso lo splendido spazio dei giardini di Sant’Abbondio (nell’ambito della rassegna Storie di cortile), dove oggi si trova l’università degli studi dell’Insubria, con accesso gratuito agli spettatori, ottimo esempio di collaborazione tra pubblico e privato.
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