CORTE COSTITUZIONALE: “È LEGITTIMA LA NORMA SUI LICENZIAMENTI COLLETTIVI NEL JOBS ACT”

A quasi due anni di distanza dalla precedente sentenza, oggi la Corte Costituzionale “ribalta” parte delle passate perplessità sulla riforma del Jobs Act arrivando a ritenere del tutto legittime le norme che disciplinano i licenziamenti collettivi. La legge introdotta dal Governo Renzi nel 2015 (e completata nel 2016), come noto, indica la riforma del diritto del lavoro volta a rendere più flessibile il mercato: ebbene oggi, con la sentenza della Consulta, viene respinta la richiesta di “illegittimità” sulla norma cardine della riforma che riguarda appunto i licenziamenti collettivi. «Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 3, primo comma, e 10 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, il quale, in attuazione della legge di delega n. 183 del 2014 (cosiddetto Jobs Act), ha introdotto il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio», si legge nel comunicato che informa il deposito della sentenza numero 7 del 2024.



La Corte d’Appello di Napoli aveva in passato censurato la disciplina dei licenziamenti collettivi per via delle conseguenze nella violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero: «Si è prevista una tutela indennitaria, compensativa del danno subito dal lavoratore, ma non più la tutela reintegratoria nel posto di lavoro, in simmetria con l’ipotesi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo», si legge ancora nella sentenza della Corte. Il decreto attuativo che ha completato la riforma Jobs Act aveva escluso invece, per i licenziamenti economici di lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti – ovvero a partire dal 7 marzo 2015 – la possibilità di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e aveva anche previsto un indennizzo economico, «limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato». La Consulta, considerando tutte le decisioni prese anche in Parlamento sul Jobs Act, ritiene che il riferimento contenuto nella legge delega ai licenziamento economici «riguardasse sia quelli individuali per giustificato motivo oggettivo, sia quelli collettivi». Per questo motivo ha escluso che vi sia stata la violazione dei criteri direttivi della legge delega.



LAVORATORI ANZIANI E GIOVANI, COSA HA SANCITO LA CONSULTA SUL JOBS ACT

Nella medesima sentenza la Corte Costituzionale ha ritenuto inoltre infondata la censura di violazione del principio di eguaglianza, comparando i lavoratori “anziani” (quelli assunti fino al 7 marzo 2015) e quelli invece “giovani” assunti appena dopo il via al Jobs Act: in sostanza, nella legge del Governo Renzi veniva conservata la più favorevole disciplina precedente al Jobs Act per i lavoratori “anziani”, compresa la reintegrazione nel posto di lavoro, mentre solo a quelli “giovani” si applicava la nuova disciplina della riforma del lavoro. La Corte riconosce che il riferimento temporale alla data di assunzione «consente di differenziare le situazioni» e non commette dunque alcuna “disuguaglianza”. Scrive ancora la Consulta con il redattore giudice Amoroso: «la nuova disciplina dei licenziamenti è orientata ad incentivare l’occupazione e a superare il precariato ed è pertanto prevista solo per i “giovani” lavoratori. Il legislatore non era tenuto, sul piano costituzionale, a rendere applicabile questa nuova disciplina anche a chi era già in servizio».



Da ultimo, la Corte Costituzionale ritiene adeguata la tutela indennitaria presente nel Jobs Act: come prevede la riforma, ad oggi al lavoratore illegittimamente licenziato all’esito di una procedura di riduzione del personale «spetta un’indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari al numero di mensilità, dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, determinato dal giudice in base ai criteri indicati da questa Corte nella sentenza n. 194 del 2018, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità». Un ultimo monito viene lanciato però allo Stato, seguendo la scia delle precedenti sentenze della Consulta: «la materia, frutto di interventi normativi stratificati, non può che essere rivista in termini complessivi, che investano sia i criteri distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, sia la funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie».