“Abrogare le leggi che sono alla base del lavoro povero e precario”; “c’è un dualismo che divide le tutele dei lavoratori”; “aumentano solo i contratti precari”: e sulla base di queste affermazioni del suo leader la Cgil lancia la raccolta di firme per l’abolizione del Jobs Act.
Un tempo nella sinistra si invitavano tutti i militanti, e i dirigenti dovevano conoscere il metodo a menadito, a fare “una analisi concreta della situazione concreta”. A partire dalla biblioteca di Frattocchie, madre di tutte le biblioteche di sinistra, ma anche in quella della Fondazione Di Vittorio per il sindacato, vi erano fior di manuali che spiegavano come fare una analisi della realtà che permettesse di avanzare proposte capaci di incidere e che non fossero solo propaganda.
La nuova campagna della Cgil apre, invece, in controtendenza con la vecchia scuola, una stagione di pura propaganda basata su una realtà immaginaria.
Prendiamo il dato grezzo dei contratti a tempo determinato sul totale dei contratti di lavoro dipendente come indicatore della precarietà. Da quando è in vigore la normativa del Jobs Act, la percentuale è scesa da 19,9% al 13,9%. Se l’obiettivo era di aumentare il numero dei lavoratori a termine bisogna dire che in effetti è stata una legge che non ha funzionato.
D’altro canto, sempre secondo le previsioni della Cgil, con la fine delle norme straordinarie per l’applicazione della cassa integrazione introdotte nel periodo pandemico, ritorno quindi all’applicazione di una altra parte della normativa del Jobs Act, avremmo avuto il boom di licenziamenti e una situazione ingestibile per l’aumento della disoccupazione.
Il mercato del lavoro italiano non ha voluto saperne di queste previsioni e sta creando posti di lavoro ancora con un buon tasso di crescita. Le ultime pubblicazioni Istat ci dicono che ben 23,773 milioni di italiani lavorano. È un massimo storico per il nostro Paese. La crescita è trainata dall’aumento di lavori con contratti stabili, che sono più del doppio del calo di contratti a termine o di lavoratori autonomi.
Nell’ultimo periodo cresce anche la disoccupazione e per la stessa percentuale (0,2%) diminuisce il tasso di inattività. È un segnale che ci indica una crescita di fiducia sull’andamento di crescita delle occasioni di lavoro.
Non va certo tutto bene. La disoccupazione giovanile cresce più dell’andamento generale. È un ulteriore conferma del mismatching formativo che non trova adeguate risposte nella formazione tecnica e professionale. Resta, inoltre, basso il contributo femminile al mercato del lavoro: vi sono 18 punti di differenza fra il tasso di occupazione maschile e quello femminile. Così rimaniamo in coda fra i Paesi europei per la difficoltà di creare pari condizioni per le donne per essere protagoniste nel mondo del lavoro.
Le problematiche che segnano difficoltà per il nostro mercato del lavoro sono poi amplificate per le regioni del Mezzogiorno dove lavoro irregolare, disoccupazione giovanile e femminile caratterizzano ancora molte zone e determinano difficoltà per una crescita del tessuto produttivo.
In questa situazione del mondo del lavoro italiano la proposta della Cgil è quella di 4 quesiti referendari per reintrodurre le tutele dell’articolo 18 per i licenziamenti illegittimi e togliere il tetto ai risarcimenti economici. Si propone di estendere le tutele dell’articolo 18 anche alle imprese sotto i 15 dipendenti, la reintroduzione delle causali per i contratti a tempo determinato e l’estensione delle responsabilità in capo ai committenti per le catene di imprese coinvolte negli appalti.
Come indicato dai dati dell’Istat è un periodo in cui si registra scarsità della offerta di lavoro sia in generale per effetto del calo demografico, sia relativa per il noto mismatching formativo. La trappola in cui si trova il nostro sistema produttivo è data dalla bassa produttività di sistema cui segue una limitata creazione di valore e di conseguenza bassi salari. Anche la crescita dell’occupazione degli ultimi periodi è per lo più sbilanciata verso quella parte del settore dei servizi caratterizzato da piccole imprese con bassa produttività e una domanda di lavoro con basse competenze che si cerca di pagare al minimo contrattuale e con part-time involontario usato per diminuire i costi.
L’effetto dei quesiti referendari proposti sulla situazione economica illustrata sarebbe nullo, anzi sosterrebbe ancora di più quelle imprese che sopravvivono proprio su bassi salari e lavoro “grigio” per superare il gap di produttività che le caratterizza.
Più che badare a cancellare parti del Jobs Act sarebbe utile impostare iniziative capaci di farne attuare pienamente una parte che è rimasta in sospeso. A fianco della riforma degli ammortizzatori sociali, la legge quadro del 2014 prevedeva anche la creazione di un sistema di politiche attive del lavoro che è rimasto largamente inattuato.
Sono tre i pilastri che dovrebbero essere realizzati e rafforzati celermente con un disegno unitario nella spesa del Pnrr dedicata al lavoro. Il nodo centrale è un piano di formazione generalizzato. Deve saper supportare la formazione continua di chi già impiegato concentrando gli sforzi su chi dovrà cambiare lavoro o professione. Fare crescere il sistema della formazione professionale dal livello base al livello terziario semplificando la creazione di istituti e potenziando i contratti di apprendistato per il sistema di formazione scuola-lavoro. A tenere assieme il tutto serve un’agenzia nazionale che coordini le politiche attive, cioè si prenda in carico chi vive le transizioni lavorative che sempre più caratterizzeranno il mondo dei lavori, e gestisca le risorse per dare sostegno economico a chi resta temporaneamente fuori da un’occupazione.
Per dare dignità e valore al lavoro non serve tornare a norme del passato, vi è bisogno di un nuovo Statuto dei lavori che sia in grado di sostenere i lavoratori di oggi e del futuro.
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