Il 22 gennaio la Corte costituzionale ha depositato la sentenza n. 7, con la quale ha rigettato i sospetti di legittimità costituzionale della disciplina dei licenziamenti collettivi prevista dal c.d. Jobs Act; più precisamente, è stata dichiarata in parte non ammissibile, in parte non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 10 e 3 del decreto legislativo n. 23 del 2015.



Queste norme disciplinano le sanzioni nel caso di licenziamenti collettivi illegittimi, prevedendo che in caso di mancanza della forma scritta la conseguenza sia quella della tutela reintegratoria prevista dall’art. 2 del d. lgs. n. 23 (il datore deve ammettere nuovamente in servizio il lavoratore e risarcirlo economicamente); che in caso di inosservanza degli obblighi di informazione e consultazione o dei criteri di scelta dei lavoratori da estromettere, la tutela sia quella meramente indennitaria prevista dall’art. 3 (la cessazione del rapporto resta efficace e il lavoratore ha diritto solo a un ristoro economico).



A giudizio della Corte d’appello di Napoli, giudice rimettente, le norme del Jobs Act sui licenziamenti collettivi violavano i parametri costituzionali di uguaglianza, di diritto al lavoro e di tutela del lavoro; le norme comunitarie della carta sociale europea; la legge delega. In sostanza, si denunciava l’inadeguatezza di una “sanzione priva di efficacia deterrente e inidonea ad assicurare un ristoro personalizzato ed effettivo del danno per i soli lavoratori assunti a tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015”.

Quello che si denuncia del Jobs Act è dunque di aver rimosso la tutela reintegratoria, sostituendola con una tutela solo economica, poco dissuasiva per i datori che procedano senza il rispetto delle norme di legge; peraltro, si ricorda che, dopo gli interventi del legislatore e della Corte costituzionale, questa è ora compresa fra le sei e le trentasei mensilità, ossia un importo non irrilevante e potenzialmente superiore a quello offerto dalle tutele passate.



La Corte ha comunque rigettato le censure di legittimità, perché non ha ravvisato che siano state violate né la legge delega, né le norme comunitarie; nel merito, non ha ritenuto che le norme introdotte nel 2015 violino il principio di uguaglianza o di tutela del lavoro, riconoscendo che quella offerta è pur sempre una tutela adeguata e ragionevole.

La sentenza della Corte appare interessante per due ragioni.

Anzitutto, perché in essa si legge una preziosa ricostruzione, in quadro storico-evolutivo, dell’istituto della reintegra del lavoratore: se da una parte la sentenza sottolinea la forza espansiva di cui è stato dotato nei decenni l’art. 18 della legge n. 300 del 1970, che l’aveva introdotta, dall’altra constata una lapalissiana evidenza, ossia che “non tutti i licenziamenti illegittimi sono uguali”, e dunque il legislatore ben può procedere a differenziare le relative tutele. Ed è appassionante, anche per cogliere i dati culturali sottostanti alle scelte prettamente giuridiche, ripercorrere insieme alla Corte il percorso normativo seguito dal legislatore.

In secondo luogo, tuttavia, la sentenza della Corte nota – quasi come una sorta di peccato originale che rischia di viziare l’assetto complessivo del sistema – “la matrice compromissoria” da cui sono state animate le riforme del 2012 e del 2015: l’intenzione di coniugare flessibilità, maggiore occupazione, esigenze di certezza della sanzione da una parte, con il principio di tutela e le resistenze al ridimensionamento della tutela reale dall’altra. Operazione che in effetti forse non è del tutto riuscita.

Tali spinte contrapposte hanno fatto sì che attualmente “la demarcazione” dei differenti regimi di tutela (reintegratoria e indennitaria) sia affidata a una “linea tracciata in termini non del tutto precisi, forieri di contenzioso ordinario, oltre che di censure di illegittimità costituzionale”.

La Corte pure dà atto che leggi successive e gli interventi della Consulta (le sentenze n. 59 del 2021 e n. 125 del 2022) hanno contributo a rendere meno indefinita tale linea di demarcazione e ampliato la tutela per i lavoratori sino a renderla adeguata. Tuttavia, come già aveva fatto in occasione della sentenza n. 183 del 2022, ha voluto segnalare al Parlamento la necessità di rivedere in termini complessivi la disciplina dei licenziamenti in relazione sia ai “criteri distintivi tra i regimi applicabili” che alla “funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie”.

E in effetti, anche il comunicato stampa con il quale la Corte ha dato notizia dell’avvenuto deposito della sentenza si chiude proprio con l’invito al legislatore a dare un assetto razionale alla materia delle sanzioni per licenziamento illegittimo.

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