Pirro non era un pirla, ma non era neppure Pirlo (nel senso del giocatore di calcio). Epperò è divenuto, nell’immaginario di noi antichi liceali e nel comune parlare degli italiani mediamente coltivati, il simbolo di chi non seppe guardare oltre l’orizzonte e non seppe distinguere nel proprio futuro quanta parte avrebbe giocato quella sua momentanea vittoria.



Siccome la storia, specie quella antica, stanca i lettori, e le nostre competenze di calcio si sono esaurite (per fortuna), usciamo ordunque dalla metafora e affrontiamo l’argomento. Il Comitato europeo dei diritti sociali ha accolto il ricorso presentato nel 2017 dalla Cgil contro il Jobs Act. In 33 densissime pagine l’organismo di Strasburgo ha ravvisato nell’impianto legislativo i presupposti di una violazione della Carta sociale europea. In particolare, sotto accusa sono i meccanismi previsti in caso di licenziamento ingiustificato nel settore privato: secondo l’organismo di Strasburgo, infatti, le disposizioni contenute nella norma e che fissano precisi limiti ai rimborsi, non tutelano abbastanza i diritti del lavoratore.



Or come ognuno vede e nota, trattasi di punti non centrali, di elementi non dirimenti nell’impianto del Jobs Act. Sarebbe facile derubricare la decisione a “ininfluente”, “fuori tempo massimo” o perfino “ingiusta”. Ma siccome non siamo difensori di quella legge, il giudizio spiccio lo lasciamo, con la relativa coda polemica, a chi deve dare conto della sua esistenza attraverso le grida e gli strepiti. Piuttosto ci interessa riflettere su un altro punto. Cioè sulla utilità del Jobs Act in sé: se cioè sia servito alla vita quotidiana della gente o se invece quei problemi che secondo il Comitato europeo discendono dalla norma, hanno rovinato uno, nessuno o centomila lavoratori.



Insomma, il sindacato con questa azione ha dato una stoccata al cuore del Jobs Act? Non al cuore politico o partitico, di cui a noi fregauntubo. Ma al cuore (cioè alla ragione) che muove il Jobs Act: scardinare un mercato del lavoro ingessato, adeguarlo a un mondo in rapidissima evoluzione, offrire ai lavoratori garanzie di ricollocazione. E dobbiamo drammaticamente dire che in questo senso né il ricorso, né la risposta del Comitato, né il Jobs Act stesso sono riusciti pienamente nel loro intento.

Appunto: Pirro non era pirla, ma neppure era Pirlo. Il ricorso sindacale aveva una sua motivazione intrinseca: difendere tutti e consegnare le chiavi della tutela dei lavoratori ai giudici. Potrà piacere o meno, ma alla fine in quella direzione si andava e in quella direzione spinge pure la sentenza di Strasburgo: non la norma, né la contrattazione, bensì la giurisprudenza dovrebbe essere l’appiglio cui guardare e a cui sospendersi per non precipitare nel baratro. Nel frattempo si sono succeduti 3 governi di cui almeno 2 (compreso l’attuale, ci pare di poter dire), di segno e colore opposti a quello renziano che si era inventato il Jobs Act. Questi, da parte sua, ignaro dei rischi che correva e del fatto che fosse fuori norma, è andato avanti tentando di fare il suo e di smuovere un mercato del lavoro che ha la agilità di una statua del Michelangelo e la bruttezza della Fiat Duna.

D’altra parte proprio Maurizio Landini non perde occasione per dire che bisogna mettere il lavoro al centro di tutto. E ha ragione. Ma l’ottimo sindacalista emiliano si è mai chiesto se in un Paese in crisi, che ha una crescita, si fa per dire, dello 0,3%, dove trovare un posto di lavoro, in certe regioni, è più difficile che comprare il biglietto vincente della lotteria, davvero il problema che attanaglia le menti italiche sia il calcolo preciso dell’indennità in caso di ingiusto licenziamento? Non è che a qualcuno è sfuggito che gli italiani prima di chiedere di essere difesi dai licenziamenti non dovuti e dai rimborsi iniqui, si preoccupano di trovarlo il lavoro che eventualmente perderanno?

Quanto al Comitato strasburghese, esso giudica sulla base di quali criteri? Ce lo chiediamo perché, sfogliandone i lavori e i risultati, tra tante perle scopriamo anche delle ‘pirle’. Niente di eclatante, ovviamente, ma siamo sicuri che la nuova normativa ungherese in materia di straordinari (che diventano obbligatori e pagabili nei due anni successivi) non sia un filino, appena appena neh, più scandalosa di una norma scritta con le estremità inferiori da uno che non era Pirlo e nemmeno Pelè? Cioè: il nemico di quell’Europa sociale del mercato che vogliamo costruire, è proprio il meccanismo italiano di rimborso in caso di licenziamento ingiustificato?

Ma andiamo avanti e arriviamo al punto che davvero ci interpella. Il Jobs Act era nato, come abbiamo detto, per rilanciare un mercato del lavoro asfittico e ansimante come una locomotiva a carbone che traina due convogli su per i monti. Al suo interno erano previsti precisi meccanismi per riqualificare i lavoratori, per accompagnarli nel transito dal posto al percorso, per orientarne le scelte. C’erano strutture pubbliche nazionali che avrebbero dovuto sorgere con l’arrivo del bel tempo e con la velocità di un lampo. Tutto era previsto e contenuto: sono passati 3 governi, ma, diciamocelo, gran parte di quell’impianto giace, lì immoto e immobile: e nemmeno risorse, come il Napoleone manzoniano, una qualche volta. No: è proprio giaciuto, stremato. Ennesima vittima della nostra unica malattia italica: ci siamo divisi, ce le siamo dette, alla fine uno ha vinto e l’altro invece pure. Ma nulla di quel che abbiamo detto o fatto ha cambiato la realtà.

E ciò in fondo ci consola molto: perché vuol dire che ci sono ancora begli spazi per poter polemizzare, litigare, rispaccarci e ridividerci. O almeno: consola noi che per mestiere scriviamo, quelli che per mestiere giudicano e quelli che per mestiere sindacano. Un po’ meno, scommettiamo?, quelli che per mestiere un lavoro lo cercano e che sono alla canna del gas e che hanno una famiglia, un mutuo e dei figli. Loro sono sempre lì, in attesa del prossimo discorso in cui qualcuno gli spiegherà che il Jobs Act non era la soluzione e che invece occorrerà fare una nuova norma. Poi che nessuno si meravigli se, ascoltata la filippica, questa povera gente penserà che i partiti non servono a granché, che i sindacati possono essere vittime ideologiche collaterali, e che a questo Paese in fondo un uomo forte al comando potrebbe fare del bene. Se al cuor non si comanda, figuratevi come si può comandare allo stomaco (dei figli) quando brontola!

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