Com’è noto, con l’intento di flessibilizzare il mercato del lavoro, l’allora Governo Renzi aveva varato un’articolata riforma legislativa. Tra gli obiettivi da realizzare c’era anche il “superamento” dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (peraltro già modificato dalla c.d. “Legge Fornero” del 2012), che notoriamente si applica a chi lavora presso un’azienda con più di 15 dipendenti. Viste però le notevoli resistenze incontrate a più livelli, venne varato il D.Lgs. n. 23/2015 che, lungi dall’abrogare in toto l’art. 18, per i soli lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 da aziende con più di 15 dipendenti, stabiliva un nuovo regime sanzionatorio in caso di licenziamento illegittimo, differenziato a seconda che si trattasse di licenziamento per ragioni di natura disciplinare ovvero di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (ovvero basato su ragioni organizzative e/o economiche).
Fermi i casi di recesso nullo (perché discriminatorio, perché intimato in violazione delle norme a tutela della maternità, o a fronte di richieste di congedo parentale, ecc.), la reintegrazione veniva prevista esclusivamente per i licenziamenti disposti per ragioni disciplinari e solo nel caso di insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore. Per tutte le altre fattispecie (licenziamenti sproporzionati o intempestivi, e anche per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo) era invece prevista “solo” una sanzione economica risarcitoria quantificata secondo criteri automatici basati sull’anzianità aziendale (con una “scala” che partiva da quattro mensilità e giungeva sino a 24 mensilità; nel 2018 la tutela è stata incrementata: la “forchetta” è ora tra le 6 e le 36 mensilità).
Il D.lgs. n. 23/2015 non è però stato accolto calorosamente (i critici dicono perché mal scritto), tanto da essere oggetto di ripetute decisioni della Corte Costituzionale che ne hanno rilevato la illegittimità sotto diversi aspetti. Più precisamente: nel 2018, è stato dichiarato illegittimo il meccanismo di quantificazione automatica dell’indennità risarcitoria (rimettendone la determinazione al Giudice del Lavoro); nel 2020, è stato dichiarato illegittimo l’ulteriore meccanismo di quantificazione automatica dell’indennità risarcitoria nei casi di vizi meramente formali del licenziamento (demandando anche in questo caso al Giudice del Lavoro il compito di fissarne l’importo rispetto al minimo e al massimo stabilito dalla legge); nel febbraio del 2024 è stato poi ampliato il range della nullità del licenziamento, che è stato esteso a tutte quelle norme che pur non parlando espressamente di nullità stabiliscano però un divieto di licenziamento al ricorrere di determinati elementi. Da ultimo, è intervenuta in maniera dirompente la sentenza della Corte Costituzionale n. 128 del 16 luglio scorso. Con questa decisione è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del D.Lgs. n. 23/201015 nella parte in cui non ha previsto la reintegrazione anche per i casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui venga direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale.
Per arrivare a questa conclusione la Corte Costituzionale ha seguito un percorso molto lineare. In primo luogo, ha rilevato che tanto la legge Fornero (definita “il punto di svolta nella disciplina dei licenziamenti” rispetto all’art. 18 Stat. Lav.) quanto il D.Lgs. n.23/2015 prendono le mosse dalla “natura necessariamente causale del recesso datoriale”, ovvero: nel nostro Ordinamento – salvo rari casi specificamente previsti – il licenziamento non può essere senza causa e cioè senza una ragione su cui si basi. Con particolare riferimento al licenziamento per giustificato motivo oggettivo la Corte ha evidenziato che “costituiscono elementi fondamentali” sia la soppressione del posto di lavoro, sia il nesso causale tra la soppressione del posto e il lavoratore licenziato. In secondo luogo, la Corte ha rilevato che con la Legge Fornero il Legislatore “ha riservato la tutela reintegratoria [prevista dall’art. 18 Stat. Lav.] alle ipotesi di maggiore gravità dell’illegittimità del licenziamento”. “In particolare, il regime della tutela reintegratoria” è stato riservato “al recesso datoriale per giusta causa o giustificato motivo [anche oggettivo] fondati su un “fatto inesistente”, perché in questo caso si tratta “di un recesso che è senza causa – prima ancora che senza giusta causa – e perciò collide proprio con il principio della necessaria natura causale del recesso”.
La Corte ha rilevato altresì che anche il D.lgs. n. 23/2015 ha riservato la reintegrazione all’ipotesi di “insussistenza del fatto”, ma l’ha limitata alla sola ipotesi del licenziamento intimato per ragioni di natura disciplinare. È qui che, per la Corte, “casca l’asino”. Richiamando un proprio precedente del 2021 la Corte ha osservato che “in un sistema che, per consapevole scelta del legislatore, annette rilievo al presupposto comune dell’insussistenza del fatto e a questo presupposto collega l’applicazione della tutela reintegratoria, si rivela disarmonico e lesivo del principio di eguaglianza il carattere facoltativo del rimedio alla reintegrazione per i soli licenziamenti economici, a fronte di una inconsistenza manifesta della giustificazione addotta e del ricorrere di un vizio di più accentuata gravità rispetto all’insussistenza pura e semplice del fatto”. Di qui l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del D. Lgs. 23/2015.
E così, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale di metà mese, d’ora in poi anche i licenziamenti per ragioni economiche e/o organizzative intimati ai dipendenti di aziende con più di 15 dipendenti assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, se illegittimi possono comportare il rischio della reintegrazione, laddove invece il legislatore li aveva originariamente completamente esclusi da questa sanzione. E non è detto che sia finita qui. Come abbiamo visto, la Corte Costituzionale ha di fatto esteso la reintegrazione all’ipotesi in cui sostanzialmente manchi la prova dell’avvenuta soppressione della posizione lavorativa occupata dal dipendente facendo leva sulla nozione di “insussistenza del fatto materiale”. La Corte di Cassazione afferma però ormai da anni (si veda da ultimo Cass. n. 87/2024) che il riferimento legislativo alla «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento» va inteso anche con riferimento al mancato rispetto dell’obbligo di repechage (ovvero alla mancata prova della impossibilità di un ricollocamento del dipendente in altra posizione).
Alla luce del consolidato insegnamento della Corte di Cassazione ci aspetta una prossima sentenza della Corte Costituzionale che riveda ulteriormente l’ambito di applicazione della reintegrazione? Come diceva Renzo Arbore in una nota pubblicità degli anni ’80, “meditate gente, meditate”.
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