La Corte Costituzionale (chissà se in vista della Giornata della memoria del 27 gennaio?) ha evitato la “soluzione finale” del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, introdotto dal dlgs n.23/2015 in attuazione di una norma di delega prevista dal Jobs Act (legge n.183 del 2014). Chi ha seguito il dibattito più recente, in tema di lavoro, conosce le vicissitudini con cui è stato accolto, poi sottoposto, questo nuovo istituto. Tanto che per sua responsabilità la maledizione di Montezuma si è abbattuta sull’intero pacchetto di norme (ben 8 deleghe) riconducibili al Jobs Act.
Infatti, quando un “santone” come Maurizio Landini afferma che il Governo che ha varato il Jobs Act non può essere considerato di sinistra spara nel mucchio, ma il suo cruccio è il contratto a tutele crescenti. Il Pd da tempo compie atti di costrizione, fino all’adozione con le gestione Schlein di una linea di vero e proprio ripudio. Non c’è da stupirsi se nel corso degli anni la magistratura del lavoro – molto sensibile al richiamo della foresta – si sia data molto daffare per demolire il contratto a tutele crescenti, reo di aver messo in discussione, più di quanto non avesse fatto la legge n. 92 del 2012 (la riforma del mercato del lavoro di Elsa Fornero), la sacralità dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, prevedendo unicamente un indennizzo e non la reintegra nel posto di lavoro nel caso di licenziamento economico (per motivi oggettivi) ritenuto illegittimo.
Ovviamente per quanti sforzi essi facciano, ai giudici di merito non è conferito il potere di abrogare le leggi. Ma non hanno esitato a gettare la palla nella tribuna della Consulta allo scopo di ottenere un giudizio di illegittimità che affossasse le norme contestate del nuovo contratto. E in parte l’obiettivo è riuscito quando la Corte Costituzionale abrogò uno dei principali aspetti di quel contratto “figlio di un dio minore”: la predeterminazione per il datore di lavoro dei costi del licenziamento, essendo il concetto di tutele crescenti ragguagliato all’anzianità di servizio del lavoratore. Chiamata anni fa a pronunciarsi su questa norma, la Consulta aveva ribadito che il giudice doveva essere libero di determinare l’importo dell’indennizzo senza essere vincolato dall’applicazione di un tariffario.
Quanto alla sentenza n. 7 del 2024 resa nota ieri sarà bene attendere le motivazioni per poter esprimere una valutazione compiuta. Per adesso siamo obbligati a lavorare sui dispacci di agenzia che riassumono il comunicato della Corte e che rivelano le difficoltà a orientarsi in questa materia. Sembra di capire che i giudici delle leggi abbiano affrontato e risolto diversi quesiti. La Corte d’Appello di Napoli aveva censurato la disciplina dei licenziamenti collettivi quanto alle conseguenze della violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero. Par di capire che la questione riguardi la gerarchia dei criteri di individuazione di questi lavoratori a conclusione delle procedure previste per i licenziamenti collettivi. Il Dlgs n. 23 conferma l’indennizzo economico e non la reintegra anche nel caso che il datore non tenga conto di questi criteri (anzianità, carichi familiari, motivi organizzativi). La Consulta ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale basate sul fatto che in tali casi non venisse prevista la reintegra.
Il rinvio più insidioso (anch’esso dichiarato non fondato) per gli eventuali effetti poneva la questione della violazione del principio di eguaglianza, comparando i lavoratori “anziani” (quelli assunti fino al 7 marzo 2015), che conservano la più favorevole disciplina precedente e quindi la reintegrazione nel posto di lavoro, e i lavoratori “giovani” (quelli assunti dopo tale data), ai quali si applica la nuova disciplina del Jobs Act. Il riferimento temporale alla data di assunzione consente di differenziare le situazioni: la nuova disciplina dei licenziamenti – spiega la Consulta nel comunicato con il quale ha dato notizia di questa sentenza, n. 7 del 2024 – è orientata a incentivare l’occupazione e a superare il precariato ed è pertanto prevista solo per i “giovani” lavoratori. Il legislatore non era tenuto, sul piano costituzionale, a rendere applicabile questa nuova disciplina anche a chi era già in servizio.
Infine, la Corte ha ritenuto non inadeguata la tutela indennitaria. Attualmente al lavoratore illegittimamente licenziato all’esito di una procedura di riduzione del personale spetta un’indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari al numero di mensilità, dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, determinato dal giudice in base ai criteri ai criteri indicati dalla stessa Corte nella sentenza n. 194 del 2018, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità.
In verità è mal posta la distinzione anziani/giovani. Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti costituisce una tipologia specifica di rapporto di lavoro che può essere applicato solo a chi viene assunto dopo il 7 marzo 2015. Per i lavoratori in forza prima di quella data si applica l’articolo 18 della legge n. 300/1070 come novellato dalla legge n. 92/2012. Ma non esiste una discriminazione anziani/giovani, perché il contratto a tutele crescenti è applicabile – salvo patto contrario – anche a un lavoratore “anziano” che cambia lavoro e viene assunto da un’altra azienda. A suo tempo si disse che in conseguenza della mobilità del lavoro alla fine il contratto di nuovo conio sarebbe stato l’unico applicato. In realtà, non esistono dati riguardanti il numero dei lavoratori a cui si applicano le due distinte fattispecie di contratto. O se esistono non sono molto diffusi o comunque non sono conosciuti da chi scrive. Sarà per questo motivo che la Corte, nella sentenza, ha ulteriormente segnalato al legislatore che “la materia, frutto di interventi normativi stratificati, non può che essere rivista in termini complessivi, che investano sia i criteri distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, sia la funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie”.
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