Parlare con Joe Henry è sempre un lusso, una occasione unica, il sogno di ogni giornalista. Negli anni mi è capitato parecchie volte, sin da quando lo conobbi, ragazzetto sbarbato, sfilare una infinità di vinili dalla libreria di casa di Carlo Carlini, indimenticata promotore di nuovi e vecchi talenti della musica d’autore americana. A un certo punto tirò fuori una vecchia compilation di Bob Dylan e volle farci ascoltare la stupenda versione di Spanish Is The Loving Tongue, solo voce e pianoforte, la vecchia hit di Elvis che, in versione orribile, era già stata pubblicata nella raccolta di scarti intitolata Dylan, pubblicata dalla Columbia per vendicarsi del fatto che il cantautore americano aveva firmato un contratto con la Asylum. Vendetta che fece effetto: dopo un solo disco in studio e uno live, Bob Dylan tornò alla casa madre per non muoversi mai più.
Joe insistette perché ci fermassimo ad ascoltare quel brano oscuro e dimenticato, dimostrando tutto il suo buon gusto e amore per la musica che muove il cuore, anche e soprattutto di brani sconosciuti ai più. Che è quello che ha sempre fatto nella sua straordinaria carriera, passando dal songwriting folk all’alternative country, dal jazz allo sperimentalismo elettronico, mai pago, sempre esplorando nuove dimensioni sonore. Per non parlare poi dei capolavori che ha prodotto: da Ani DiFranco a Solomon Burke, da Allen Toussaint a Elvis Costello, da Loudon Wainwright a Mose Allison e tanti altri ancora. Un musicista totale, un talento unico, e anche un uomo di grande cultura, un autentico intellettuale e un americano vero.
Il nuovo, bellissimo disco, The Gospel According To Water, nasce come una raccolta di demo registrati in un paio di giorni. Riascoltandoli, Joe capisce che non c’è bisogno di altro, a parte qualche abbellimento come un lieve pianoforte, un dobro, un sassofono in un pezzo. Un disco che, alla luce della malattia da lui stesso annunciata pubblicamente un anno fa, suona come una profonda meditazione su vita e morte.
Presentando questo disco, hai detto che in qualche modo è nato dalla “terra nera della recente esperienza, una diagnosi di cancro, che mi ha fatto vacillare”. Si discute da sempre se l’arte nasca o no dalla sofferenza, nel caso di queste canzoni è stato così?
Penso che molta arte sia nata dal dolore e dalla sofferenza. Più precisamente in quei momenti di dolore e sofferenza, in cui la vera consapevolezza del dolore e della fragilità diventa la nostra stessa vita. Le canzoni di questo disco non parlano di dolore e sofferenza, ma la sofferenza mi permette di vedere la mia umanità e quella di tutti gli altri in un modo molto chiaro e questo è un dono.
Come sempre, hai un modo particolarissimo nel comporre canzoni. Anche questa volta danno l’impressione che siano l’espressione di una dimensione onirica, come una voce che proviene dal tuo io più profondo, magari inconsciamente. E’ così?
E’ vero, quelle che reputo le mie migliori canzoni nascono nello stesso modo in cui nascono i sogni. Scrivere una canzone non è qualcosa che faccio, è qualcosa che mi sta accadendo nel modo in cui accade un sogno. Puoi sentire in un sogno o in una canzone che ci sia qualcosa direttamente correlato alla tua vita, ma sta succedendo qualcosa di più: in quei momenti penso che stai trascendendo la tua vita e vedendola in relazione a tutte le altre vite. Penso che sia abbastanza diverso da qualcuno che si siede per scrivere una canzone con un messaggio. Non ho mai avuto un’idea in anticipo di cosa volessi scrivere in una canzone. Le canzoni si muovono dentro e intorno a me nel modo in cui il tempo si muove, cerco solo di essere sveglio e di essere il più fedele possibile.
Quello che dici mi fa pensare a quando, una volta, hai detto di non essere affatto un cantautore autobiografico, ma che stai diventando sempre più consapevole che è impossibile separare le canzoni dalla vita che permette loro di accadere. Le canzoni hanno una vita propria?
Mi piace questa frase, che le canzoni abbiano una vita propria. Posso riconoscere cose nella mia vita che permettono alle canzoni di nascere e muovere la mia attenzione verso quel qualcosa, ma non sto scrivendo della mia vita. Sto scrivendo in un modo in cui la mia vita mi ha permesso di essere aperto e osservare le cose. Uso la mia esperienza di vita per guardare fuori nel mondo. Non scrivo mai di me stesso, ma so di esserne comunque parte. E le esperienze che ultimamente sto vivendo mi permettono di vedere in un certo modo che credo sia molto diverso da prima.
Musicalmente, queste nuove canzoni tornano indietro agli inizi della tua carriera, alla grande tradizione del songwriting folk americano. Ma c’è qualcosa in più che spicca in maniera mirabile, la nuda forza della voce. Spesso, di questi tempi, è qualcosa che è stato dimenticato, che ne pensi?
C’è una grande forza nel modo in cui decidiamo di essere nudi. E’ qualcosa che ho imparato da grandi musicisti come Robert Johnson, Lightning Hopkins o Skip James. Quando la produzione di un disco diventa minima, l’espressione artistica diventa enorme. Quando ero ragazzo ho potuto sentire Leadbelly cantare senza chitarra, fu la cosa più grande che abbia mai sentito. Se aggiungi molti strumenti, spingi tutto lontano dall’ascoltatore. Ma quando come artista sei disposto a metterti a nudo ti metti non solo nella stessa stanza dell’ascoltatore, ma quasi nella sua stessa sedia.
Cosa significa il titolo del disco e della canzone omonima, The Gospel According to Water. Gospel è vangelo, qual è il nesso?
Sto cercando di allontanarmi dall’idea che la nostra spiritualità sia definita soltanto dalla religione. Sto cercando di vedere Dio in ogni cosa che ci circonda. Guardo al potere dell’acqua e il modo in cui è capace di trasformare la forma delle cose. Non devi guardare in alto nel cielo per immaginare qualcosa di grandioso e allo stesso tempo lontano. Il potere di Dio si trova proprio sotto ai tuoi piedi, si muove attraverso il corpo ed è questo il modo con cui sto cercando di interpretare il Divino.
Il contrario dell’astrazione a cui è spesso collegata la religione?
Non penso che dobbiamo pensare al mondo dopo la morte per avere una relazione con Dio. Dobbiamo solo guardare sotto ai nostri piedi e questa relazione si svelerà per noi ogni giorno.
Nelle tue canzoni, hai spesso citato personaggi reali, come nel brano di qualche anno fa Richard Pryor Addresses a Tearful Nation. In questo disco c’è un pezzo che si intitola Orson Welles e un altro dedicato al generale cinese Tzu, famoso per aver scritto il libro L’arte della guerra. Che cosa significano queste persone per te?
Non li ho scelti io, loro hanno scelto me, un giorno li ho sentiti presenti nell’aria. La canzone si chiama Orson Welles ma non parla di lui. Stavo pensando alla sua umanità, il modo in cui cercava di controllare il suo ambiente e di come alla fine venne contrastato dalla sua stessa umanità. La vita è difficile e la maggior parte di noi crea le proprie difficoltà. Orson Welles è un bellissimo simbolo di questo. Ma non pensavo direttamente a lui, è stato come dicevamo prima, il sogno. Un giorno ho scritto il suo nome sul mio taccuino e ho capito che c’era una canzone che non sapevo che significato avesse. Ma il mio lavoro non è quello di sapere o capire, il mio lavoro è arrendermi al processo e ascoltare.
E il Generale Tzu?
Avevo immaginato una figura potente, in grado di dare un nome ai pianeti come se l’essere umano conquistasse potere su di essi solo battezzandoli. Come essere umani, cerchiamo di controllare e impadronirci di ogni cosa, perché siamo spaventati da ciò che siamo e da cosa potrebbe accaderci.
La canzone Famine Walk si riferisce alla grande carestia (“famine”) che uccise tantissimi irlandesi?
Mi trovavo in Irlanda l’anno scorso e stavo camminando su questa strada che le persone dell’albergo dove alloggiavo chiamavano “la strada della carestia”. Era una vecchia strada che avevano costruito le vittime della carestia. C’erano vecchie case in rovina dappertutto con alberi cresciuti all’interno, come un cimitero. Mi sembrava che tutto i vecchi fantasmi di quelle persone fossero ancora lì, nell’aria. Viviamo tutti sapendo che non vivremo per sempre, ma lì, in quel luogo, era come se non ci fosse un confine tra vita e morte. Ero consapevole di come dobbiamo fare pace con l’idea della morte, tutti dobbiamo fare una sorta di pace con ciò che significa vivere quando sappiamo che non vivremo per sempre.
Cambiando completamente argomento, sembra che nel mondo occidentale, dall’America all’Italia, ci sia una rinascita del razzismo e della destra estrema. Cosa sta succedendo?
E’ una domanda difficile. Molti americani pensano che siamo caduti nella catastrofe con un presidente come Trump. Ma in realtà l’America è sempre convissuta con il caos. Ci riteniamo i leader del mondo, ma il nostro paese è stato fondato su un genocidio. Siamo sempre stati una nazione pericolosa. Ci presentiamo al mondo con un volto pacifico, ma siamo sempre stati guidati da un grande desiderio di potere. Adesso la porta è stata lasciata aperta e tutti gli animali sono scappati in cortile. In tutto il mondo sta accadendo la stessa cosa. La gente comincia a capire che quello che era tenuto nascosto è invece la nostra realtà di sempre.
Viviamo in un mondo fatto di notizie false, slogan fasulli, menzogne. Ne usciremo fuori?
Dobbiamo arrivare a un livello in cui le cose saranno così fuori controllo da costringerci a svegliarci. In America è stato troppo facile per troppo tempo – crediamo solo che “oh i politici si prendono cura delle cose, non dobbiamo pensare a nulla”. Ma ora ci rendiamo conto che abbiamo la responsabilità di guardare cosa stanno facendo le persone nel nome nostro. Per quanto terribile, le persone stanno iniziando a rialzarsi e dire “no, questo non è ciò che intendiamo essere.” È un momento importante, un momento difficile, ma è un momento importante. Dobbiamo assumerci la responsabilità non solo di chi siamo come americani, ma di chi siamo come esseri umani gli uni con gli altri. Dobbiamo superare ogni difficoltà umana che possa essere ricondotta a un impulso a voler vedere le differenze piuttosto che cercare le cose che collegano tutti noi.
(Il disco esce il 15 novembre. Grazie a Eleanor Mary de Veras per l’aiuto)