Già dal primo obiettivo, Jojo Rabbit si poneva difficile: fare una commedia per ragazzi ambientata nella Germania nazista. Ancora più difficile: rendere Hitler l’amico immaginario del protagonista. Quasi impossibile: riempire questa storia di passaggio dall’odio nazista alla consapevolezza umana di umorismo bizzarro, audace, dissacrante. Forse troppo per Taika Waititi. Il regista neozelandese che aveva rivestito di risate Thor: Ragnarok prende un romanzo di Christine Leunens (“Come semi d’autunno”) e lo mina dall’interno facendo del film – almeno nel progetto di partenza – un mix tra il Wes Anderson più infantile e le comiche del National Lampoon: la storia che il film, scritto dallo stesso Waititi, racconta è quella di Jojo, un bambino fanatico nazista, che ama tanto il Führer (interpretato proprio dal regista) da parlarci e che durante un campo resta sfigurato da una mina. Nel dover riprendere la propria vita scopre che la madre nasconde Elsa, una ragazza ebrea e la sua vita ne viene sconvolta, mentre fuori Berlino viene presa d’assedio.
L’humour sul filo del demenziale che rende riconoscibile il tocco di Waititi fin dagli esordi (e dall’irresistibile horror comico Vita da vampiro) dovrebbe essere il grimaldello per comunicare i temi, i sentimenti, le sensazioni, per scoperchiare l’orrore del pensiero violento e suprematista che sta tornando vivo nel mondo, facendo di Hitler una figura clownesca che metta a disagio e, per contrasto, ne sottolinei l’orrore. Tutto questo progetto, comunque troppo scoperto e meccanico, senza i magnifici tempi comici di cui il regista è capace, si arena però dopo nemmeno un quarto di film.
Posto di fronte tutta una serie di questioni etiche, morali e professionali, Waititi si ferma e arretra: poco a poco, Jojo Rabbit ritorna su binari comodi e innocui, quelli del romanzo di partenza da cui però espunge tutto il dramma, il dolore, il rapporto con la vita, sembrando così un film che scena dopo scena abbassa il suo profilo, limitandosi al mero programma educativo.
Basti vedere il modo pavido e fasullo con cui il personaggio di Hitler viene “usato” dal film per veicolare il suo messaggio didattico. Se sia paura per Waititi o calcolata furbizia (per non dire, ipocrisia) non sapremmo dirlo ora, però l’idea di un prodotto che in qualche modo prende in giro lo spettatore resta soprattutto perché il gioco che alla fine sceglie di giocare, pur semplice, va giocato e il regista non sa giocarlo, i toni intimisti, di sentimenti appena abbozzati e rimandi alle dinamiche infantili non fanno parte del suo repertorio.
Visto che Jojo Rabbit abbonda di trovate visive, estetiche, plastiche che rimandano a Wes Anderson (i colori di Mihai Mălaimare Jr., le scenografie, i costumi di Mayes C. Rubeo) non si può non pensare all’intensa delicatezza di un film per chi scrive magnifico come Moonrise Kingdom. È appunto questione di repertorio: quello che Waititi sa suonare meglio decide di metterlo da parte. Se non fosse che il film finge di essere ciò che non è, sarebbe anche meritevole di simpatia.