Ci vuole una carica di tristezza smisurata e la capacità di trasfigurarla in un dato oltre la realtà. Serve la consapevolezza di volersi mettere in gioco con la propria biografia, con l’affidavit che quei vuoti esistenziali da raccontare assoneranno con le biografie di molti. E’ necessario, insomma, avere un talento artistico e una capacità di visione fuori dal comune per fare quello che Joni Mitchell ha fatto cinquant’anni fa con Blue. Eh già, correva il mese di maggio del 1971 quando fece capolino al mondo.
Uno di quegli album con effetto Dorian Gray, destinati a non invecchiare e a non far sentire il peso del tempo, con quel volto in un primissimo piano così espressivo a garanzia dell’autenticità dei contenuti. Blue è un vinile che per il successivo decennio non mancò praticamente in nessuna casa professasse una qualche inclinazione all’ascolto e, solcato da una puntina, ebbe la capacità di creare l’effetto di camino artificiale, fattore di indiscussa aggregazione al di là di ogni plausibile argomento critico.
Ogni facciata cinque canzoni di tre o quattro minuti, scarne per arrangiamenti, ridotte essenzialmente a quel soprano cristallino ora dolente ora suadente. Joni Mitchell stava per entrare nell’olimpo delle eccellenze con quell’album che superò in poche settimane il milione di copie vendute.
E’ sempre difficile davanti a lavori così importanti riassumere i perché di un’accoglienza unanime. Probabilmente vanno quantomeno tenute salde due coordinate, una di natura strettamente musicale e l’altra relativa alle storie raccontate. E a partire proprio da queste ultime, con Blue ha fatto irruzione un “Io” potente e incontenibile: la verità dell’esperienza privata della Mitchell diventa una narrazione immaginifica e riesce, per la prima volta nella musica folk-rock, a sublimare la realtà in una condizione tutta poetica, dove i colori, i simboli e la curatissima retorica negli incastri metrici consentono la trasformazione da esperienza ad arte. “All I want”, sono le parole pronunciate per prime nel disco, quasi un manifesto di intenzioni, con tanto di pronome a diradare ogni equivoco. “In Blue”, ebbe a dire Joni Mitchell, “non c’è una sola nota disonesta nella voce. In quel periodo della vita non avevo difese personali. Mi sentivo come l’involucro di cellophane sul pacchetto di sigarette. Sentivo di non avere alcun segreto da nascondere al mondo e non avrei potuto far finta di essere forte nei confronti della vita. E nemmeno di essere felice. Ma il vantaggio è che anche nella musica non c’era alcun tipo di difesa”.
Già, la musica. La Mitchell andò a cercarsi un posto nella più scomoda e affollata delle case, quella dei folk singer, dove divinità come Bob Dylan, Joan Baez, Neil Young e il pur giovane James Taylor erano già l’indiscutibile zona di non sorvolo per nuovi talenti; uno spazio musicale dove l’imitazione più che l’innovazione era l’unica via percorribile a occhio umano. E invece la ventisettenne Joni, canadese di Fort Macleod, ebbe un modo tutto suo di scrivere testi e suonare; canzoni costruite su giri melodici innovativi, coerenti e piuttosto complessi, autentici detonatori piazzati sui pochi accordi utilizzati dai “padri” e portatori di un linguaggio armonico fiorito, ricco di alterazioni e modulazioni tra tonalità. Brani difficilissimi da cantare a dispetto della naturalezza con la quale sembravano venir fuori, zeppi di colori e varianti d’espressione. Perché Blue è, in primo luogo, proprio questo: il punto di non ritorno per la scrittura moderna del folk (e sue nuances collaterali dal pop al rock al jazz).
E così sono arrivati oggi integri per freschezza brani come A case of You, River, California o Little Green, il brano con il quale iniziò a fare i conti con la figlia data in adozione due anni prima, come gesto di disperazione da ragazza madre: “Perché ho scritto queste canzoni in Blue? Il punto è che subito dopo aver dato mia figlia in adozione, mi ritrovai una casa e una macchina e, in breve, ero diventata un personaggio pubblico. La combinazione di queste circostanze non si incastrava bene. Così ho iniziato a scavare con l’aiuto della musica su chi io fossi realmente. Ecco come è venuto fuori”, ha dichiarato solo pochi anni fa, prima della necessitata assenza dalle scene per problemi di salute.
Fatto sta che fu quell’album ad illuminare una nuova strada per la musica cantautorale, avvicinandola a linguaggi apparentemente più distanti come il jazz (basti pensare alle fruttuose collaborazioni della Mitchell con Wayne Shorter, Jaco Pastorious, Michael Brecker, Pat Metheny etc.) o la musica colta contemporanea. Che dopo cinque decadi suoni così attuale è magia che spetta solo ai grandi.
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