Non c’è dubbio che Joni Mitchell sia stata nella musica d’autore l’equivalente femminile di quello che Bob Dylan sia stato per quella maschile. Ma siccome a noi non interessano le quote rosa, li mettiamo allo stesso livello, i massimi geni del cantautorato del secolo scorso. Ad avvalorare questo concetto, vale anche il fatto che i due, allo stesso modo, non abbiano mai fatto un disco uguale al precedente, cercando sempre di distanziarsi, di evolversi, di esplorare. Per David Crosby, scopritore di Joni Mitchell, la cantautrice è anche migliore di Dylan per i testi e le capacità strumentali. Sulla seconda cosa non c’è dubbio: il suo stile chitarristico, evolutosi continuamente, non ha paragoni. Come Dylan, poi, che fece la celebre svolta dal folk al rock, la Mitchell fece quella dal folk al jazz.



La pubblicazione di un delizioso cofanetto che contiene tutti gli album su cd della cantautrice canadese (The Studio Album 1968 1979, dieci cd escluso il live del 1975, Miles of aisles; il cofanetto contiene i cd inseriti nelle copertine di cartoncino rappresentanti la grafica originale degli LP originali con tanto di inserti fotografici purtroppo testi e note di copertine sono microscopici e illeggibili), dal primo, Song to a seagull noto anche semplicemente come Joni Mitchell, suo esordio del 1968, a Mingus, che chiude gli anni 70 e il suo periodo migliore, appare una scelta cronologica perfettamente azzeccata.



Dopo, anche lei, come Dylan e i suo coetanei, negli anni 80 avrebbe prodotto brutti e inutili dischi per poi quasi interrompere l’attività con rare uscite autocelebrative e poi purtroppo l’ictus che quasi se la portò via.

Il periodo storico di questo cofanetto è esemplificativo di un detto che nella musica rock ha valore assoluto: i dischi migliori si fanno tra i 25 e i 30 anni (nel caso di Dylan e della Mitchell anche prima). Poi subentrano la distrazione, la noia, il mero professionismo. Riascoltare questi dischi, a tanti anni di distanza (per il sottoscritto tornare alla Mitchell ha voluto dire anche un intervallo di venti e più anni) permette di riscoprirla come merita: una artista meravigliosa. La sua capacità di trovare sempre accordature nuove per la chitarra (si dice ne abbia inventate più di 50) è una goduria per l’ascolto, un piacere in sé stesso, ma lo è anche la sua capacità pianistica che non ha pari. E’ facilissimo, riascoltandola, accorgersi di come tutte le cantautrici dagli anni 90 in poi, paghino debito profondissimo a lei nel suono, nell’ispirazione.



“Non avrei perseguito una carriera nella musica se non fosse stato per andare in cerca di guai”, ha detto una volta. Si riferiva a problemi reali: l’infanzia trascorsa costretta a letto con la poliomielite e la perdita che plasmò la sua vita dopo aver dato la figlia in adozione nel 1965. Quegli eventi rafforzarono la spinta che spinse Mitchell dal Canada rurale di piccole dimensioni verso l’America mecca dello spettacolo dove si sarebbe rivelata la calamita che spostava l’ago del pop. Ma il problema, in tutte le sue manifestazioni, è anche la musa di Mitchell. Chiamatela brama di innovazione o il rifiuto di riposare in confortanti cliché; chiamatela l’essenza che la rende un segreto condiviso per milioni di ascoltatori. Il guaio è il cuore artistico di Joni Mitchell, lo spazio aperto che può sembrare un vuoto ma è anche il vero terreno delle possibilità. Risuona attraverso le sue famose accordature di chitarra aperte e affiora nel modo in cui il suo piede preme un pedale del pianoforte. È nell’impossibile sbandata del suo giovane soprano e nella risonanza incrinata dei toni più bassi che è arrivata dopo. Preoccuparsi della musica di Joni Mitchell, sia come collega musicista che come fan serio, significa accogliere i problemi come amici, come la sfida che anima la vita. Le sue canzoni ci chiedono di vivere nei guai, di vedere gli specchi incastonati nelle sue crepe: i guai che creiamo, i guai che ci intralciano, che fanno un nido che poi riempiamo di più guai perché ne siamo fatti anche noi.

Ecco allora che il tanto celebrato Blue, considerato il suo capolavoro assoluto (e capolavoro lo è) viene da paragonare al precedente in ordine di uscita Ladies of the Canyon, che al sottoscritto fa pensare che sia anche migliore.

Se Blue, sin dal titolo (“tristezza”, “malinconia”) è il canto doloroso della fine di un amore, l’altro è invece la celebrazione dell’amore. Non solo: è un manifesto in tempo reale di un momento storico unico nel panorama della musica d’autore, quel celebre “canyon” di Los Angeles dove si erano ritirati a vivere i migliori esponenti di quella scena, da Neil Young a Jackson Browne, dallo stesso Crosby a James Taylor e tanti altri. Una comunità musicale ma anche dell’amore. Lo scambio di coppie era naturale come comporre una canzone. e finiva per influenzare le canzoni stesse. Joni Mitchell però parla principalmente delle “signore del canyon”, valorizzando la presenza femminile. La sua capacità di esporre il punto di vista relazionale e personale della donna sarà infatti sempre la sua dote migliore. Non un manifesto ideologico, ma piuttosto una analisi psicologica introspettiva sul mondo femminile come nessuna aveva fatto e nessuna saprà mai fare. Un disco che contiene gemme come Big yellow taxi, The circle game, Willy fra le altre.

Una seconda splendida riscoperta è il disco d’esordio, dimenticato dai più, che invece suona come un meraviglioso affresco sospeso nel tempo e fuori del tempo. Fortemente influenzato dalla rinascita del folk specialmente quello inglese (la Mitchell ancora sconosciuta si era recata a visitare e a esibirsi piccoli club oltremanica) ha però una bellezza che lo rende unico nel panorama molto di moda in quel periodo storico. Le canzoni di Mitchell, le sue accordature già innovative, creano una atmosfera di magia e di bellezza cristallina. Sebbene debba ancora trovare la sua voce, si realizza quello che David Crosby, produttore del disco, aveva sognato: “Voglio che abbia il suono di una donna che passa per strada in una gonna di pizzo davanti a una vetrina”. Cioè il suono oltre il suono, come di cristalleria. L’effetto ottenuto è quello, con un fascinoso eco che ai tempi fu considerato un errore di missaggio e che invece oggi nonostante il tentativo di correggerlo, dà al disco l’atmosfera di qualcosa che proviene da un altro mondo.

Il secondo disco mostra l’incredibile maturità raggiunta come compositrice in così breve tempo. E’ qui che trovano infatti spazio alcuni dei suoi classici come Chelsea Morning e Both Sides Now Bypassando i due dischi già citati, For the roses, a parte la divertente You turn me on (I’m a radio) sembra un po’ un lavoro di transizione.

E’ infatti con Court and spark, che Joni Mitchell lascia trapelare il suo crescente amore per il jazz. Il cantato diventa superlativo e l’accompagnamento si arricchisce di diversi musicisti. E se il rock’n’roll di Raised on Robbery (con Robbie Robertson di The Band alla chitarra) dimostra che potrebbe seguire qualunque strada voglia, è la superba Free man in Paris la gemma di questa nuova Joni Mitchell.

The hissing of summer lawns e Hejira sono due dischi di profonda esplorazione. Il primo rivolgendosi addirittura con anni di anticipo alla world music (contenente anche la stupefacente Shadows and light, canto coristico a cappella), il secondo spigoloso e avventuroso, dove debutta un nuovo suono di chitarra, sincopato ed elettrificato, disco-manifesto di un periodo difficile che stava vivendo. Debutta qui il bassista straordinario Jaco Pastorius, l’accompagnatore perfetto per le esplorazioni musicali della cantautrice.

Don Juan’s reckless daughter è il suo capolavoro più ambizioso e innovativo: bastano gli sconvolgenti sedici minuti dell’orchestrata Paprika plans per ascoltare qualcosa di sconvolgente. In Ouverture invece suonano ben sei chitarre con accordature diverse fra loro. Ma è la presenza, adesso definitiva, dello straordinario bassista Jaco Pastorius che fa volare verso orizzonti infiniti. Il disco è tutto una sorta di duello tra la chitarra di lei e il basso preponderante di lui, una battaglia che si scioglie in territori inauditi. Mingus oggi invece appare meno sorprendente di quello che sembrò ai tempi dell’uscita, ma è pur sempre un gran disco.

Alla fine di questo ascolti, che in realtà non cesseranno mai, non ci possono mai essere abbastanza ricordi che ci dicano che l’esperienza umana è arricchita solo dall’auto-riflessione; ascoltando, nella calma e nella solitudine. Tornare alle canzoni di Joni Mitchell offre ora quel dono prezioso: ci ricordano che l’arte non viene solo da incontri inaspettati – tra persone, culture, passato e presente e il mondo dei sogni – ma dal nutrimento, dalla pratica e dalla volontà di prendere semplicemente tempo per migliorare il nostro lavoro. Joni Mitchell si è presa quel tempo. Ha affrontato i problemi che il semplice vivere inevitabilmente solleva: il cuore che si spezza, si rammarica e si cicatrizza col passare del tempo; l’anima che perde strati nel lento e talvolta inaffidabile processo di illuminazione.

Per tutto questo, ci sono i suoi dischi.