La Creazione di Franz Joseph Haydn ha aperto il 2020 della stagione sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. E’ una chicca per Roma dove, nella stagioni dell’Accademia, La Creazione è stata eseguita solo nove volte dal 1897, l’ultima nel 2015. Il lavoro è stato eseguito come spettacolo di Capo d’Anno al Teatro dell’Opera negli anni novanta del secolo scorso e nel 2009 dall’Orchestra Sinfonica Rome. A titolo di raffronto, merita ricordare che l’oratorio apre ogni anno l’ouverture spirituale del festival estivo di Salisburgo.



Il programma di sala sottolinea che viene eseguita l’edizione viennese, con libretto ovviamente in tedesco. Ne esiste un’altra versione, composta per Londra, con libretto naturalmente in inglese, che ebbi la ventura di ascoltare alla National Symphony di Washington, circa quaranta anni fa, diretta da Mstislav Leopol’dovic Rostropovic. Le differenze sono profonde perché mentre nel libretto tedesco si segue pedissequamente la Bibbia ponendo l’accento sul passaggio dal caos all’armonia del creato e sul nesso tra fede e ragione, nel Regno Unito, protestante e con un forte ruolo della massoneria, secondo il musicologo Wilfrid Mellers, ‘Dio viene presentato come un meccanico’ e la vicenda biblica ‘come una parabola massonica’.



Inoltre, l’oratorio nell’edizione composta nel 1796-98 e rappresentata la prima volta al Palazzo Schwarzenberger, segue stilemi prossimi a quelli dell’opera lirica dell’epoca, invece di quelli seguiti in oratori tedeschi ed in inglesi. Più raffinati i primi, più monumentali i secondi. L’oratorio come genere non era diffuso in Austria tanto in quanto in Germania e Gran Bretagna. In Italia aveva avuto una grande fioritura in epoca barocca e veniva ancora commissionato durante la Quaresima (quando era vietato rappresentare opere) ma stava progressivamente disparendo.

Questa premessa è, a mio avviso, importante per spiegare perché La Creazione ci presenta un Haydn più elegante che monumentale, specialmente nella terza parte incentrata sull’amore tra Adamo ed Eva. Nel lavoro con l’esclusione di quella straordinaria pagina iniziale che descrive il Caos primigenio, i sette giorni della nascita dell’Universo vengono raccontati dai tre arcangeli, con un tono semplice, disincantato e diretto. Tutto appare informato a una positiva fiducia, ad un’ottimistica e commossa visione del farsi delle cose, della natura e delle sue creature secondo un atteggiamento che fu tipico dell’epoca ma che traduce anche l’animo e il sentimento del compositore giunto alla fine della carriera e all’apice della notorietà.



Nel primo e nel secondo atto, i tre arcangeli Gabriele, Uriel e Raffaello osservano il Creato seguendo da vicino il testo biblico. Nel terzo atto, non stiamo più assistendo da lontano alle opere del Creatore. La scena è il Giardino dell’Eden. Dopo un’introduzione di Uriel, l’atto è una lunga scena d’amore tra Adamo ed Eva che include un duetto sostenuto da uno sfondo corale. In breve, dal caos, prima della Creazione, all’estasi, prima che appaiano il serpente e le sue tentazioni.

Ci sono cinque personaggi ma tre cantanti: il basso e il soprano sono Raffaele e Gabriels nel primo e nel secondo atto per poi diventare Adam ed Eva nel terzo. I ruoli sono difficili sia per la durata (quasi due ore di musica) che per il canto virtuoso – implicano coloratura, agilità, un bel po ‘di do maggiori e molti Fa. Nella prima parte, direttore d’orchestra, orchestra e cantanti amplificato la transizione dal caos (d minore) al mondo appena illuminato (la maggiore). Nel secondo atto, l’enfasi è sull’immaginario descrittivo come nella rappresentazione degli animali: l’allegra, ma scortese, esplosione del leone (un trombone), la tigre, il pascolo tranquillo del bestiame e la musica sinuosa per il serpente. Il terzo atto non è così contemplativo come normalmente ipotizzato: l’amore tra Adamo ed Eva è potente, non solo platonico; il loro duetto è estatico, una transizione essenziale al glorioso ritornello finale del coro.

In questa produzione, il direttore d’orchestra è l’austriaco Manfred Honeck, che ha avuto una lunga carriera con i Wiener Philharmoniker ed è spesso direttore ospite dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Conosce la partitura a menadito e la padroneggia completamente dall’introduzione iniziale in cui l’alternanza tra fortissimo e pianissimo per raffigurare il caos, fino al duetto d’amore estatico finale. Il tenore tedesco Maximilian Schmitt è Uriel: ha mostrato un ottimo legato e un’ottima agilità nell’ascesa ad un registro alto. Il basso tedesco Tareq Nazmi è un Raffaello contemplativo e un Adamo appassionato. Entrambi hanno un forte volume, un requisito a ragione dell’enorme sala da concerto (tremila posti). Il soprano americano Robin Johannsen è Gabriele ed Eva. È un soprano lirico con una voce ben impostata e una buona coloratura, ma nella prima parte dell’esecuzione il suo volume sembrava piuttosto poco rispetto a quelli del tenore e del basso. Ha recuperato nel lungo nella seconda parte anche perché il basso abbassato il suo volume nel lungo ed impervio duetto. Vibrante, come al solito, il coro guidato da Piero Monti. Grande successo.