Caro direttore,
da circa una settimana una notizia mi rimbomba nella mente e mi riempie il cuore di domande. La morte di Julia Ituma, diciottenne promessa del volley italiano, mi ha colto infatti alla sprovvista mentre stavo per fare il mio ingresso in classe tra dei ragazzi suoi coetanei. Non sapevo chi fosse Julia fino a quell’istante, ma non ho potuto fare a meno di pensare a lei e ai miei studenti da quel momento in avanti.
Sono innumerevoli gli interrogativi che possono sorgere di fronte a un evento del genere, e tanti sono tornati alla ribalta dei media in questi giorni. Il dibattito intorno alla morte di Julia si è subito orientato su alcune domande: si è trattato di suicidio? Perché una ragazza nel fiore dell’età, e giunta ai massimi livelli dello sport che ama, può veder terminare la sua vita in questo modo? Cosa le mancava?
Se guardo all’esperienza personale, che mi vede spesso dialogare coi coetanei di Julia, cercando, mio malgrado, di accostarmi alle loro domande, e al video di lei che, pensosa, trascorre minuti interminabili accovacciata nel corridoio dell’hotel prima di quell’attimo fatale, mi sorgono però altre questioni a monte.
I nostri ragazzi hanno la consapevolezza della profondità del loro animo complesso, del loro essere a volte così contradditori, senza doversene necessariamente scandalizzare? E, cosa che preme molto al mio cuore di educatore, hanno la consapevolezza che quanto vivono, luci e ombre, ha la dignità di essere accolto da qualcuno?
Mi si potrebbe dire che mai come in questo particolare periodo storico si stia finalmente facendo passare l’idea che la fragilità non è un male, anzi ci rende in un certo qual modo speciali. Eppure, come ha fatto giustamente notare una compagna di squadra di Julia, la pallavolista Sara Bonifacio, in un suo post, “Viviamo in un mondo dove essere fragili è una vergogna, un mondo che ti spinge a rialzarti prima di cadere…”. La fragilità va bene fintanto che è transitoria, una fase di passaggio, ma può essere conosciuta, accolta, approfondita per una conoscenza di sé?
Il tutto cozza con un mondo che ci dice sì, e con una certa insistenza, che non c’è problema ad avere un problema, ma che poi ci fa sprofondare nella ricerca ossessiva della performance, immersi nell’idea che la vita in fondo bisogna meritarsela, che si deve mettere in mostra certe qualità per legittimare la propria persona. Cosa può rispondere a tutto questo? O, meglio, chi?
Mi è tornata alla mente un’intervista del cantante Enzo Jannacci al Corriere della Sera che risale al 2009. Interpellato, in quanto medico e padre, sulla vicenda Eluana Englaro, l’artista milanese concludeva con queste parole: “Se il Nazareno tornasse ci prenderebbe a sberle tutti quanti. Ce lo meritiamo, eccome, però avremmo così tanto bisogno di una sua carezza”.
Ecco, non saprei esprimere più adeguatamente quanto vorrei oggi poter dire ai miei studenti e, un giorno, a Julia. Non c’è una strategia. C’è una carezza che ci attende, c’è un qualcuno nel rapporto col quale il mio e il tuo essere tormentati ritrova una dignità e una possibilità di pace imprevista e desiderata.
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