“Lo stiamo considerando”: con queste, poche e sicuramente ben calcolate, parole Joe Biden nella giornata di ieri ha riaperto le speranze per una ipotetica grazia presidenziale a Julian Assange, il giornalista ed attivista che si celava dietro a WikiLeaks, accusato di 17 (+1) diversi campi d’imputazione, per i quali non è mai stato sottoposto ad un equo processo. Pur senza alcuna incriminazione formale, tuttavia, nella realtà dei fatti da quasi 5 anni esatti Julian Assange è incarcerato nel Regno Unito, che ha già nel 2022 aveva concesso la sua estradizione, poi impugnata dallo stesso giornalista.
L’apertura di Biden allo stato attuale non significa nulla di reale, perché oltre alle tre parole pronunciate non è più stato rilasciato alcun commento sulla questione, mentre gli stessi sostenitori del giornalista per ora preferiscono rimanere in silenzio, nell’attesa che quella grazie semi promessa si traduca concretamente nella libertà per Julian Assange. Se Biden dovesse perseguire questa linea farebbe di fatto cadere tutte le accuse contro l’attivista, che a sua volta, secondo alcune indiscrezioni dei media americani, potrebbe essere spinto a dichiararsi colpevole dell’accusa di “cattiva gestione d’informazioni classificate“, evitando la scure dell’intransigente Espionage Act del 1917.
Le accuse contro Julian Assange: il ruolo di Obama, quello di Trump e la grazia di Biden
Di fatto, se tutto andasse come suppongono i media, Julian Assange verrebbe solo parzialmente graziato, ma sarebbe comunque libero considerando la pena che ha già scontata nel Regno Unito, evitando così l’incriminazione agli oltre 175 anni di carcere che rischia con la legge anti spionaggio. Da parte del giornalista, che si trova nel carcere londinese di Belmarsh, non è arrivato nessun commento, ma è probabile che stia seguendo la linea cauta dei suoi fedelissimi, chiusi in un religioso silenzio nell’attesa che Biden formalizzi (e non si rimangi) la grazia.
L’accusa a suo carico ruota tutta attorno alla pubblicazione di centinaia di file riservati e confidenziali del Pentagono sulla piattaforma WikiLeakes, con l’aiuto dell’ex analista dell’intelligence Chelsea Manning, che fornì a Julian Assange le password per trafugare i documenti. In una prima fase l’ex presidente Barack Obama decise di incriminare Manning, per poi graziarlo alcuni mesi dopo, risparmiando (ma non graziando) Assange, temendo ripercussioni gravissime sulla libertà di stampa negli States. Donald Trump riportò in auge la questione, dando il via a 17 capi d’imputazione, escludendo il 18esimo, ovvero il tradimento, e chiedendo l’estradizione di Julian Assange che, nel frattempo, si trovava nel Regno Unito. Biden, infine, potrebbe mettere definitivamente una pietra sopra alla questione, dando seguito alle numerose richieste avanzate negli anni dal governo dell’Australia (di cui l’attivista è cittadino).