A 33 anni il californiano Julian Lage realizza un album perfetto, Squint, capace di cambiare – finalmente – il corso della chitarra nel jazz. In effetti, se c’è uno strumento che ha segnato discograficamente il mercato di questa musica negli ultimi decenni è stato proprio l’amato cordofono che, sdoganato nelle sue possibilità da Re Miles, ha vissuto sulla cresta grazie ad una generazione di fenomeni (Scofield, McLaughlin, Metheny, Ford, Abercrombie e davvero un sequitur impressionante). Il punto, però, è che i giovani leoni (quelli rimasti) han messo su la muta grigia e, pur portando con coerenza avanti il loro modo di fare musica, hanno lasciato sul campo uno stuolo di pur ottimi imitatori, ma a corto di idee e di progetti forti. E come è proprio delle figure leaderistiche, anche la musica nuova per poter seminare ha bisogno di quell’inenarrabile alchimia di qualità oltremondane che le conferiscono, appunto, “carisma”. Un fenomeno piuttosto simile a quanto avvenuto nel rock con la fine di guitar heroes dei ’70 e la lunga attesa della “nuova” leva (John Petrucci o Slash, per dire).
Bene, con Squint la chitarra di Lage riporta tutta la complessità del jazz al centro del villaggio, grazie a undici composizioni suonate con ispirazione costante e diverse tra loro, incollate dalla coerenza del linguaggio melodico e ancorate da armonie nel bilico tra tradizione e innovazione. Non c’è un solo secondo di questo album in cui la (debordante) tecnica del leader non venga messa al servizio della musica, in equilibrio tra scrittura e improvvisazione. Dall’ Etude in apertura, un inatteso omaggio alla letteratura classica tra Poulenc e Villa-Lobos, Lage accompagna l’ascoltatore dentro Boo’s Blues, che ripercorre le mai esauste dodici battute con un suono che parte da lontano e pare voler omaggiare i padri nobili dello strumento (Charlie Christian e Kenny Burrell, sugli altri) e finisce per articolare un fraseggio mai scontato e pieno di idee. Ed è, tutto sommato, questa la cifra che fa dell’album il segnaposto miliare, perché il californiano sembra conoscere benissimo la storia del jazz, diluendo tributi mai statici più che all’uno o all’altro protagonista proprio al modo di pensare la musica. Questo gli consente di spostare con grazia il baricentro dei brani in un territorio tutto nuovo e idoneo a far da campo base al futuro del genere. In Squint, come si conviene, ci sono ballad (la splendida Emily), incursioni nel free (Familiar Flower), nel rock (Saint Rose), nel country (Call of the Canyon), ma soprattutto c’è un grado di maturità e di sintesi che in molti s’attendevano da tempo da Julian Lage; in effetti, l’impressione diffusa è che anni di collaborazioni prestigiosissime, in particolare come sideman in tour con Charles Lloyd, siano finalmente giunti ad un punto di arrivo, determinato a scavalcare i modelli circolanti di jazz chitarristico, un po’ spompato anche quando suonato dagli ultimi dei giganti.
Chi ama il jazz sentirà parlare molto in futuro di Julian Lage, c’è da scommetterci; seguirlo da subito sarebbe la migliore delle possibilità.
Disclaimer: i commentatori di faccende musicali sono noti per le loro cantonate, manicheismi, irruzioni improvvide di gusti a imbrattare il dovere di cronaca avalutativa. E siccome Epimenide cretese diceva che tutti i cretesi son bugiardi, non ci si sfilerà dalla scia d’errori. So it goes.
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