La cultura woke sembra essere sparita dai discorsi di Kamala Harris: nessuna traccia nella Convention di Chicago, così pure nel congresso. Per Ian Buruma, docente del Bard College ed ex direttore del NY Review of Books, si tratta di una «scelta deliberata», da un lato perché è in atto una trasformazione politica tra i democratici e dall’altro perché ritiene che così possa vincere le elezioni negli Stati in bilico, dove bisogna attirare i voti di chi è irritato dalle politiche culturali della sinistra progressista.
«Non sono interessati ai trans o alle battaglie identitarie e di genere. Ciò li ha spinti verso i repubblicani, minimizzare la guerra culturale serve a recuperarli». Per Biden è stato facile accantonare questi temi, visto che – spiega Buruma – non ha mai avuto interesse per essi, invece per Kamala Harris è una scelta dettata dal fatto che «sarebbe una cattiva tattica dedicare troppo tempo alle guerre culturali, e non abbastanza ai problemi della classe media e lavoratrice».
Per Buruma, comunque, la vicepresidente ha il merito di aver mostrato un partito unito: anche se ci sono correnti con idee diverse su vari temi, a partire da Gaza, non sono emersi conflitti tra le correnti. «Harris ha cercato l’equilibrio, dicendo che sostiene il diritto di Israele a esistere, ma anche l’autodeterminazione dei palestinesi». Questo, però, non vuol dire che la strada che porta alla Casa Bianca sia in discesa per la vice di Joe Biden, del resto le incognite non mancano, a partire dal voto degli arabi del Michigan.
IAN BURUMA SUL RIPOSIZIONAMENTO DEI DEMOCRATICI
Per il professor Buruma il presidente Usa Joe Biden ha avviato un riposizionamento della sinistra dalle cause culturali sociali alla classe lavoratrice: «La sua vita e la sua carriera non fanno parte di quel progressismo culturale». Ma il fenomeno non riguarda solo gli Stati Uniti, ma anche l’Europa. Ad esempio, fa riferimento al calo dei vecchi partiti di sinistra dall’Italia alla Francia, passando per Germania e Olanda: il motivo è legato allo spostamento dell’attenzione dalla classa operaia alle questioni sociali e culturali.
Un errore comprensibile per Buruma, visto che «il proletariato industriale occidentale si era rimpicciolito e non bastava più ai partiti di sinistra per vincere. Questa evoluzione però li ha anche danneggiati». Quindi, Biden lo ha capito e la sua vice lo sta seguendo. Per quanto riguarda le accuse di “comunismo” dei repubblicani, per Buruma «è una sciocchezza». Anche la scelta di non menzionare il fatto di essere donna e nera è una scelta precisa di Harris, frutto anche della lezione imparata dal fallimento di Hillary Clinton. «Harris non vuole essere vista come il simbolo di un’identità, ma come la presidente di tutti gli americani».
“KAMALA HARRIS HA SCELTO LA STRATEGIA GIUSTA”
Il riposizionamento dei democratici è una svolta positiva per Ian Buruma: l’auspicio è sicuramente quello di recuperare gli elettori tradizionali. «Harris non menziona il genere e il colore della pelle perché molti bianchi si sentirebbero alienati, pensando che Trump sia il loro rappresentante. Così invece spera che si identifichino con lei per le posizioni politiche, anche se non le assomigliano. È la strategia giusta», dichiara nell’intervista a Repubblica.
Questo complica anche il “lavoro” di Trump per attaccarla, visto che andando sul personale poi allontana gruppi elettorali importanti e ha già problemi nell’attirare le donne a causa della sua posizione sull’aborto. Riguardo il possibile legame tra la cultura woke e l’esito delle elezioni presidenziali Usa, Buruma conclude: «Se Trump vincesse, infiammerebbe le emozioni della sinistra e la guerra culturale peggiorerebbe. Se perderà, la gente si calmerà abbastanza rapidamente».