Cantare in un bosco con un fiore tra i capelli mentre si danza con un morbido e lungo abito rosso non potrà mai essere una cattiva idea. Ancor di più se la canzone in questione è Wuthering Heights e si respirano le atmosfere dello Yorkshire e delle sorelle Brontë nel frattempo che l’azione viene compiuta: difatti, Kate Bush parrebbe essere a conoscenza di qualcosa di simile.



Nata a Bexleyheath – nel sud di Londra – nel 1958, cominciò a suonare il pianoforte a 5 anni, dimostrando sin da subito un precoce talento: crebbe tra musica, libri e storie irlandesi e, scoperta da David Gilmour appena sedicenne, raggiunse l’apice del successo con Wuthering Heights (1978) – in italiano Cime Tempestose- canzone in cui riuscì a catturare l’essenza di un capolavoro della letteratura inglese con l’acutezza e la drammaticità proprie della storia narrata, mostrando al contempo la passionalità e la possessività di Catherine – protagonista femminile del libro – curiosamente, ma di certo non per caso, sua omonima.



Un’impresa non da poco che le valse anche un encomio da parte della Brontë Society e che la consacrò nuova stella del panorama musicale inglese di fine anni ’70, fino al decennio successivo. Se il motivo della sua unicità ha un certo retrogusto di visionarietà e di surrealismo, al contempo, però, l’artista ha sempre dimostrato una certa semplicità nel veicolare i suoi messaggi artistici, dando spazio non solo ad atmosfere fatate e lontane nel tempo e nello spazio, ma soprattutto all’inglesità della sua anima, dalle lezioni di danza a Covent Garden ai testi delle sue canzoni, profondamente poetiche nel senso più inglese del termine: il suo amore per Shakespeare dà prova di fedeltà in Blown away con una citazione di Otello e in Cloudbusting con un sottile riferimento ad Amleto tramite le parole “your sun’s coming out”, mentre nell’album Lionheart non mancano riferimenti a Peter Pan, celebre classico londinese di J.M. Berry, così come nel brano The Sensual World, l’illustre monologo di Molly Bloom dell’Ulisse di Joyce si vede tramutato in un’altra creatura musicale dell’eterea artista, tanto da rischiare di comprometterne la pubblicazione a causa dell’estensiva citazione che Kate avrebbe voluto a tutti i costi trasformare in musica.



Voce da soprano ed estensione di quattro ottave, forse inimitabile, decisamente difficile da replicare per i comuni mortali e pressochè impossibile da canticchiare sotto la doccia, occhi grandi ed espressivi perennemente contornati da maestosi smokey eyes anni ’80, e per questo necessari, Kate Bush continua a incarnare un esempio di creatività e originalità femminili che dovrebbero quantomeno far riflettere sul cambiamento, degli ultimi decenni, in termini di genio creativo e personalità. A tal proposito, è bene infatti ricordare che la giovane artista rifiutò sin dagli esordi le imposizioni dei discografici con i quali si scontrò e si impose a più riprese: il tempo le diede ragione, dimostrando quanto la presunta inaccessibilità dei temi da lei proposti nelle sue canzoni, considerati troppo elevati e per questo incomprensibili ai più fosse, in realtà, infondata. Fece così prevalere il suo intuito e non sbagliò.

Affascinante e in qualche modo sensuale, nel senso più intangibile del termine, senza mai concedersi alla volgarità, ha costantemente sfoggiato una femminilità eterea e magnetica seppur familiare: dopotutto, in gran parte dei videoclip delle sue canzoni è possibile ritrovarla danzante, a metà tra vere e proprie coreografie – come in Running up that hill, in cui esegue un passo a due di danza contemporanea – alternate a studiate sequenze di passi e a una mimica di grande teatralità, sua particolare cifra stilistica. E se la danza non rappresenta una novità in termini di espressione di libertà – basti pensare a Stevie Nicks, voce dei Fleetwood Mac, profondamente rock e al contempo attratta visceralmente dalla danza classica e dalla sua eleganza -, in Kate Bush il movimento diventa non solo elemento centrale della sua arte, ma anche una componente inscindibile delle sue creazioni e, quindi, della sua stessa voce. È un muoversi arioso e libero, quasi primordiale, che rende palpabile qualcosa di fiabesco, come si può constatare in Moving, Wow e The Sensual World, solo per proporre alcuni esempi.

Personalità, carisma e portamento da dama medievale potrebbero infine costituire la triade di questa cantautrice che a soli 13 anni riuscì a scrivere testi quali The man with the Child in his eyes in cui canta melodiosamente: “Credono che si sia perso su un orizzonte/ E all’improvviso mi ritrovo/ Ascoltando un uomo che non ho mai conosciuto prima/ Che mi racconta del mare/ Tutto il suo amore, fino all’eternità/ Ooh, è di nuovo qui/ L’uomo con il bambino negli occhi“. Eleganza e profondità, dunque, perché Kate, sin da piccola, si interessò alle profondità, ai motivi lontani – quasi da romantici ottocenteschi – che risuonano come il contrario della superficie, di gran lunga meno interessante dei tesori nascosti negli abissi.

Eppure, la definitiva prova dell’artisticità della cantante in questione non va ricercata nella sua capacità creativa, né nelle sue abilità di scrittura, o di raccontare storie, e nemmeno nel suo sapersi muovere o danzare. No, la conferma del suo raffinato talento può essere definitivamente ritrovata nel 1986, anno in cui stabilì con Peter Gabriel, celebre voce dei Genesis, un sodalizio artistico, culminante nel singolo Don’t give up, canzone luminosa il cui video ritrae Peter e Kate, intenti semplicemente a cantare, fermi, stretti in un abbraccio di sei minuti e trenta.

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