Oklahoma. Primi del Novecento. Nella riserva indiana degli Osage (affibbiata dall’America bianca perché apparentemente priva di risorse), viene scoperto il petrolio. Ed è così che, in breve tempo, il popolo bullizzato dalla civiltà a stelle e strisce scopre il profumo del denaro. In questo remoto e improvvisamente rinato territorio si insediano così degli avidi affaristi, pronti a sfruttare tutto lo sfruttabile.



A muovere le redini, dietro le quinte, c’è William Hale (De Niro), autorevole e magnanimo amico degli indiani, in tempi non sospetti. E suo nipote Earnest (DiCaprio) in cerca di un lavoro, di ritorno dalla guerra.

Era il 1993 quando Robert De Niro e Leonardo DiCaprio (all’epoca solamente diciassettenne) si incontrarono per la prima volta sul set di Voglia di ricominciare. Fu un film modesto ma, per DiCaprio, fu l’inizio di tutto (se si eccettua il trascurabile film horror che ha segnato il suo debutto, Critters 3). De Niro aveva già fatto Taxi Driver, Il cacciatore, Toro scatenato, C’era una volta in America, Mission, Gli intoccabili. Era già quel pozzo di talento recitativo tra i più rari al mondo. Al quale DiCaprio ha certamente attinto, divenendo nel tempo uno dei possibili eredi putativi del grande maestro del metodo Stanislavskij.



Si ritrovarono nel 1996, ne La stanza di Marvin, e poi solamente oggi, ventisette anni dopo, a impreziosire l’ultima fatica del più grande regista vivente, Martin Scorsese.

Un’epopea infinita, quella raccontata da Scorsese, riscritta con Eric Roth a partire dall’opera del giornalista d’inchiesta David Grann, che per primo ha denunciato la storia. 3 ore e 26 minuti (oggettivamente troppi per il fisico rattrappito tra le poltrone del cinema) che scavano alle origini del male, reincarnato nel sistematico annientamento di un popolo.

Già con Silence Scorsese aveva provato a immergerci nella natura profonda e instancabile dell’avidità umana, nelle pieghe meschine della volontà di potenza che cancella il rispetto, la legalità, la giustizia, la lealtà e qualunque minima forma di compassione.



Con Killers of the Flower Moon siamo di fronte a una minuziosa e sistematica rappresentazione di una quasi silenziosa e criminale appropriazione indebita, quella propiziata da una cricca di sedicenti civili bianchi senza un briciolo di etica né di pudore, ai danni di un intero popolo, gli Osage.

È anche, e purtroppo, la storia stessa della cosiddetta civiltà, che troppe volte reitera se stessa e le proprie malefatte, provando sempre a giustificarsi sulla base di patentini di merito e demerito, distribuiti con copiosa generosità. Un principio di autogiustificazione che appartiene al comune modo di porsi di molti uomini, popoli e nazioni. Che pretendono di guardare dall’alto. Della cultura, del progresso, della civiltà, dei valori collettivi, delle regole condivise da pochi, della pace, imposta con la forza. Mai, nemmeno, un punto di domanda?

La figura di William Hale, animata da De Niro, è iconica e mostruosa, nel suo sorriso convincente, mefistofelico, accogliente e gelido al tempo stesso. Un uomo rassicurante, magnanimo, a volte piacione ma intimamente omicida, mafioso nell’anima. Un uomo capace di imbrogliare perfino se stesso. Un uomo che si assolve dai peccati, semplicemente perché ha imparato a chiamarli con un altro nome.

Al suo fianco c’è Earnest, nomen omen. Un giovane onesto e sincero, come dice la parola, ma solo da battesimo. La sua vita si attorciglia attorno all’avidità di zio Hale che spruzza con abilità le sue contagiose pillole di ingordigia. È DiCaprio a riempire di vita questo personaggio che annacqua la sua colpa nell’incolpevole stupidità che gli appartiene. Una nuova impressionante interpretazione che si esprime in tutta la sua fisicità, con l’attore che arriva a deformare la sua mascella capace di riassumerne l’ignoranza.

Tra i due mostri sacri trova spazio credibile Lily Gladstone, nativa della riserva di Blackfeet, donna di coraggio e determinazione, vittima sacrificale della storia.

Scontata la qualità visiva di questo film e di tutto ciò che ruota attorno.

Uno Scorsese in gran forma, che continua a regalarci le sue storie ispirate, profondamente sociali e mirabilmente graffianti.

Il film, che avremmo volentieri visto in due tempi, è anche la storia del primo caso risolto dall’FBI. Ma è tutt’altro che una glorificazione dell’America e dei suoi metodi. Un vero fortuito toccasana per gli alfieri del complottismo e della struggente fiaba dei poteri forti.

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